Il risultato delle elezioni regionali svoltesi lo scorso primo settembre in Sassonia e Turingia ha segnato un terremoto per il sistema politico tedesco. Certamente l’esito era atteso, ma vederlo certificato dai numeri dei voti e degli eletti fa una certa impressione. A undici anni dalla sua fondazione il partito Alternative für Deutschland ha compiuto una parabola impressionante fino a diventare forza maggioritaria in una regione simbolicamente importante come la Turingia (la regione di Weimar e Jena), e secondo partito in Sassonia, la regione di Dresda e Lipsia, con una percentuale del 30%, a un’incollatura dalla Cdu. Ed è probabile che una situazione analoga si riproponga il prossimo 23 settembre nel Brandeburgo, il grande Land che circonda Berlino, anch’esso ex area delle DDR.

Sarebbe del tutto semplicistico ridurre la questione ad un fatto episodico o marginale, oppure rapportarla all’incompiuto processo di riunificazione avviato nel 1989 dopo la caduta del Muro. Ovviamente i fattori locali contano eccome ed è drammatico costatare come 35 anni dopo la magica notte del 9 novembre ’89 tra tedeschi dell’est e dell’ovest si registrino ancora incredibili differenze di mentalità e di orientamento politico. Resta il fatto che, se AfD raggiunge il 30% nelle regioni orientali, va piuttosto bene anche in quelle occidentali. A livello nazionale, se si votasse oggi, AfD si avvicinerebbe al 20%, una percentuale che solo qualche anno fa sarebbe stata impensabile.

Nella vecchia Bundesrepublik occidentale vigeva un dogma in cui tutti i cancellieri cristiano-democratici, da Adenauer a Kohl fino ad Angela Merkel, hanno creduto: mai scoprirsi a destra, evitare in tutti i modi la nascita di una forza politica a destra della Cdu. Anche allora vi erano piccoli partiti di estrema destra (NPD, i Republikaner), ma venivano sempre contenuti sotto la soglia fatidica del 5%, quota minima indispensabile per avere rappresentanza in parlamento. Ma quando è sorta AfD nel 2013, le cose sono radicalmente cambiate. Dapprima si trattava di un piccolo movimento euroscettico, fondato e guidato da docenti universitari, per lo più economisti nostalgici del marco, convinti che l’adesione alla moneta unica danneggiasse le dinamiche produttive del paese. Erano quasi tutti fuoriusciti dalla Cdu e non sembravano un grave pericolo. Quella AfD degli inizi ha cambiato pelle lasciando posto a un partito ben strutturato, diffuso capillarmente su tutto il territorio nazionale, con bastioni nell’area orientale, stabilmente sopra il 15% alle elezioni nazionali. All’euroscetticismo sono subentrate altre tematiche, riconducibili alle tendenze tradizionali della destra: xenofobia, nazionalismo, oltre alla rivendicazione di un’identità tedesco-orientale fortemente penalizzata nel processo di riunificazione nazionale. Su queste basi AfD ha costruito la sua ascesa puntando anche su personaggi poco raccomandabili come quel Björn Höcke, candidato governatore in Turingia, protagonista di diversi incidenti incresciosi e di scivolate neonaziste, e per questo osservato speciale del Verfassungsschutz, il servizio di protezione della Costituzione. Non sono neonazisti, come spesso si dice in modo troppo schematico, ma certamente non disdegnano il ricorso a slogan del Terzo Reich (“no alla sostituzione etnica”, “Germania prima di tutto”) garantendosi i voti della galassia neonazi che continua ad esistere e che è molto attiva sui social.

Intendiamoci, da un punto di vista geopolitico il successo di forze politiche di destra estrema potrebbe essere visto come un allineamento della Germania ad altre nazioni vicine: in fondo è accaduto anche in Austria, in Francia, in Ungheria e in Polonia che partiti di quella famiglia ottenessero notevoli risultati elettorali. E in Italia governa da due anni legittimamente un partito che ha le sue più remote origini nel fascismo. Perché la Germania dovrebbe fare eccezione? Perché dovrebbe essere immune da certe tendenze generali? La risposta è ovvia: la Germania non è un Paese come gli altri e il passato nazista continua ad avere un peso specifico non eludibile negli equilibri e nei rapporti di forza internazionali. Quello che altrove è accettabile, sia pure tra mille polemiche, in Germania inesorabilmente fa insorgere gli spettri di un’epoca micidiale e funesta.

Discorso analogo si può fare per la sinistra: anche la SPD da Brand in poi ha sempre fatto attenzione a non farsi superare a sinistra. Poi è arrivata la Linke di Gysi e Lafontaine, e da ultimo si assiste al fenomeno Sarah Wagenknecht, fuoriuscita dalla Linke e capace di fondare un partito “personale” (si chiama Movimento Sarah Wagenknecht) che in pochi mesi ha raggiunto l’11,8 in Sassonia e il 15,8 in Turingia. A livello nazionale potrebbe prendere il 10%. Anche questo è un segnale di crisi sistemica. È profondamente sbagliato utilizzare la categoria di “rossobruni” per questo partito. Esprime piuttosto un populismo di sinistra che raccoglie in primo luogo il pacifismo di chi vorrebbe sospendere l’invio di armi in Ucraina e ristabilire buoni rapporti con la Russia, e inoltre intercetta il malcontento per disoccupazione, povertà, politiche sull’emigrazione considerate lassiste e sbagliate. Questo è un punto nevralgico. La presenza di stranieri irregolari, i casi di criminalità violenta come quello recente di Solingen, la pratica dell’accoglienza senza limiti avviata da Angela Merkel nove anni fa, hanno alimentato una protesta sotterranea che ora presenta il conto. Dopo lo choc delle elezioni in Turingia e Sassonia i partiti al governo e quelli all’opposizione si vedono costretti a rivedere il proprio approccio nei confronti di AfD. La strategia della demonizzazione e dell’ostracismo non ha pagato. Meglio sarebbe accettare di confrontarsi con i problemi che alimentano il consenso di AfD e cercare di risolverli così che non possano più essere strumentalizzati. Ciò non significa naturalmente allentare la pregiudiziale per cui si evita ogni possibile intesa con AfD. La conventio ad excludendum sarà mantenuta, ma ci sono segnali di un cambio di passo nelle politiche di accoglienza e diritto d’asilo, nella lotta alla criminalità, nell’attuazione del piano per la transizione energetica e nella parificazione di salari e pensioni tra abitanti dell’est e dell’ovest. Il cancelliere Scholz ha imposto il rimpatrio coatto di alcuni rifugiati afgani pregiudicati, la ministra dell’Interno Nancy Fraeser intende sospendere Schengen e chiudere le frontiere per sei mesi. Friedrich Merz, leader della Cdu e probabile candidato alla cancelleria il prossimo anno, vorrebbe che si facesse di più. Lo scossone è tale che lo slogan Wir schaffen das («Ce la facciamo») di merkeliana memoria sembra destinato a diventare in breve un relitto della storia.

Crediti foto di Datingscout su Unsplash

  • Gherardo Ugolini

    Gherardo Ugolini è professore associato di Filologia classica, Storia della tradizione classica e Storia del teatro greco e latino presso l’Università di Verona. Come giornalista pubblicista ha collaborato e collabora con varie testate tra cui «Corriere d’Italia», «Diario della Settimana», «L’Unità», «Il Giornale di Brescia» (di cui è editorialista).