In “Agire politico e libertà dell’Evangelo” il grande teologo protestante svizzero Karl Barth faceva due dichiarazioni molto esigenti già per la sua epoca e che interrogano ancora oggi i cristiani europei. Esse possono anche rappresentare l’incoraggiamento ad un nuovo inizio nella riflessione su cosa debbano fare i cristiani (come comunità) nella sfera pubblica. La prima dichiarazione è teologica: “La comunità cristiana non ha nessun sistema né si presenta come un partito, non conosce né alleati né avversari politici, ma conosce solo uomini […] la chiesa non può essere né contro l’Est né contro l’Ovest. Può solo interporsi tra l’uno e l’altro…”. Si tratta di frasi pesanti se si pensa al clima di guerra fredda: la chiesa – i cristiani come comunità – hanno come vocazione di non avere nemici ma di doversi interporre tra coloro che si considerano nemici. Tale idea si connette con la definizione che Benedetto XV aveva dato della Grande guerra: “l’inutile strage”. La chiesa non conosce il “nemico”: per essa ogni conflitto è definibile come guerra fratricida. Ciò non significa che la chiesa e i cristiani non giudichino chi commette stragi, orrori, chi uccide o chi aggredisce: ma significa che non si ferma al giudizio né emette una condanna assoluta. Ogni uomo può cambiare, ogni popolo può cambiare. Come ha predicato il cardinale Matteo Zuppi il 2 agosto scorso ricordando la strage di Bologna: la chiesa ascolta sempre e custodisce – come la cosa più preziosa – il sangue di ogni Abele di questo mondo. Allo stesso tempo si rivolge a Caino: “il Signore non lascia Caino senza parole. Non resta a guardare per poi giudicarlo male. Gli chiede di agire per tornare a guardare Abele negli occhi”.
Barth fa una seconda dichiarazione, che oggi vogliamo ascoltare con più attenzione perché offre un’indicazione concreta su cosa fare concretamente per reagire: “la chiesa non può essere che per l’Europa. Per un’Europa libera che segua liberamente una terza via, la sua propria via. Una libera chiesa è forse l’ultima speranza per una tale libera Europa”. In questa affermazione ritroviamo – come cattolici – il grido di papa Francesco il quale, riprendendo dai suoi predecessori, disse: “che cosa ti è successo, Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà?”
Cristiani erano Adenauer, Schuman e De Gasperi quando immaginarono un’Europa unita. Oggi ci vuole un impulso simile che rilegga quelle vicende non per ricordarle retoricamente ma per declinarle e attualizzarle nel mondo di oggi. La prima cosa da dire è che la società è meno cristiana di quella di ieri, meno pervasa da simboli e memorie cristiane. È una società che vive “etsi Deus non daretur”, come se Dio non fosse dato. Non significa non credere in Dio, ma vuol dire che si vive senza che ciò abbia influenza. Al posto di Dio c’è oggi il mondo dell’IO, ingombrante, che gira isterico attorno a sé stesso, insoddisfatto e aggressivo. Alla fine un IO deluso ma talmente egocentrico da diventare narcisista e non guardare più gli altri oltre sé.
Tutto ciò non significa che questo uomo e questa donna così accentratori e individualisti non abbiano bisogno di comunità, il che tradotto in termini politici significa di un paese, di democrazia per tutti e di un’Europa solidale. Con il linguaggio del suo tempo e della sua cultura Barth parlava di: “libera chiesa in una libera Europa”, una formula che può piacere ai liberali. Tutta la cultura politica popolare si è costruita su tali premesse: un’Europa che vide assieme cattolici e protestanti, una prima volta nella storia del continente. Lo stesso Pio XII accettò questa alleanza superando antichi veti. Su tale base furono possibili ulteriori alleanze politiche, con le culture liberale e socialista democratica.
Oggi che la spinta propulsiva delle culture politiche fondatrici viene meno, dobbiamo chiederci cosa fare come cristiani. Come tornare ad un’idea di Europa che sia – si perdoni la ripetitività – davvero europea e non una semplice sommatoria di interessi o un sinonimo di Occidente, in un contesto in cui i cristiani contano meno e sono politicamente meno al centro? Essere nostalgici non ha senso: la società è molto secolarizzata ma non per questo ha perso inclinazione per l’umanesimo, per il dialogo tra culture, per le proprie radici di libertà, per il senso di comunità. Non si lotta contro la secolarizzazione con la nostalgia ma guardando avanti. Andrea Riccardi parla di recuperare la forza dell’immaginazione: “ci vuole un salto di immaginazione alternativa che diventi visione profetica”. Siamo in effetti in un periodo in cui proliferano tanti falsi profeti (anche per i cristiani: si pensi ai neo-evangelicali) ma manca il coraggio di un salto, di una vera profezia per il futuro. Vorrei provare a dire qualcosa sull’identità nazionale, sulla democrazia e infine sull’idea di Europa.
Una prima questione da dirimere è quella della nazione: le destre parlano variamente di nazione e nazionalismo, sulla spinta di una ricerca identitaria che è costantemente basata sulla contrapposizione. La domanda è: ci va bene una comunità nazionale che trae la sua forza identitaria dal contrapporsi alle altre? Che si basa sulla cultura del nemico, ancorché smussata per non apparire troppo dura o arcaica? I cattolici devono provare a dire la loro su cosa sia una giusta dose di identità che corrisponda all’umanesimo europeo, alla sua cultura giuridica e al suo equilibrio sociale. Il dibattito sulle radici cristiane dell’Europa non ha reso giustizia a tale quesito. Come cattolici italiani abbiamo una particolare responsabilità nel rispondere a tale esigenza: come sappiamo l’indicazione evangelica e la dottrina sociale della chiesa rappresentano tanta parte dell’umanesimo che è la vera identità del nostro paese e che per questo mantiene uno sguardo critico verso possibili derive della convivenza civile. Nel suo “Narrare l’Italia” Luigi Zoja definisce come “caduta luciferina” il declinare nel “provincialismo nazionalista”, sia quello generale che quello locale (dell’autonomia differenziata, cioè). Ma più importante ancora è il fatto che – prosegue Zoja: “l’Italia esporta la propria supremazia senza muovere eserciti […] umanesimo e rinascimento conquistarono l’Europa in quanto culture […] il primato dell’Italia aveva questa qualità non violenta”. Ciò corrisponde a “uno dei pochi rapporti tra culture diverse non sfociato in imperialismo ma solo in assimilazione volontaria”, quella per la quale Erasmo poteva liberamente dire “siamo tutti italiani!” pur restando sé stesso. Non è questo un tema sul quale riflettere per tornare a proporre tale soft power come vocazione nazionale (ma anche europea)? Non c’è da reinventare un nuovo umanesimo italiano che riscopra il gratuito in un’epoca di mercato, il solidale in un’epoca di individualismo, la cultura del dialogo pacifico in un’epoca di accuse reciproche di ingerenza e di colonialismo culturale e non? La questione è: come non rinunciare a sé stessi e ai propri valori identitari ma riuscire a declinarli in modo non aggressivo. I cattolici possono proporlo perché hanno in sé la vocazione a migliorare la qualità del vivere civile. In altre parole: ai cattolici il convivere interessa; si sentono costantemente chiamati al suo progresso senza rimanere bloccati da ideologie o schemi prefissati (noi vs loro). C’è sempre un uomo mezzo morto davanti al quale fermarsi, interrogarsi su cosa si debba fare, inventare una reazione positiva.
Stesso ragionamento i cattolici possono fare sulla democrazia: la sua decadenza a sistema ordoliberista o – peggio ancora – a democrazia illiberale non può lasciarli indifferenti e rassegnati a guardare. Se il giudizio sul liberismo selvaggio tipico della prima fase della globalizzazione è ormai generalizzato a causa delle diseguaglianze che ha scavato, anche sull’ordoliberalismo di mercato all’europea emergono ora i numerosi limiti legati al “tutto economico” e soprattutto al pan-finanziario che lo caratterizza. Non si tratta di mettersi contro il mercato o essere a favore di un fallimentare sistema statalista, ma di constatare il fatto che esso non può rispondere a tutte le esigenze della società. Patti di stabilità e fiscal compact vari non bastano, anzi sterilizzano il contenuto più importante della democrazia mediante postulati tecnici o tecnocratici: il deliberare. La logica del TINA (there is no alternative) non può diventare la cifra della democrazia europea, né il “it’s the economy, stupid”. Abbiamo vissuto troppo sotto tale illusione, tanto da scaricarci di molte responsabilità e questo ha favorito le destre e la loro volontà di potenza identitaria. Proteggere la democrazia dalle derive illiberali è oggi certamente un compito dei cattolici: scegliere cioè per una società di tutti e che ascolta tutte le esigenze cercando il compromesso. Si tratta di un impegno sempre complesso che privilegia il dialogo e il negoziato al decisionismo o alla scelta di uno solo, fosse a tempo. La critica attuale per il metodo del dialogo e l’irrisione della ricerca del compromesso non possono essere accettabili per i cristiani. La scelta attuale per il premierato diviene una limitazione alla democrazia parlamentare: è il parlamento il luogo simbolo del continuo dialogo politico e della formazione di una politica che non escluda. Qualunque limitazione dei poteri del parlamento diviene – almeno in Italia – una pratica rischiosa e alla fin fine illiberale, soprattutto se accompagnata da misure che limitano l’indipendenza della magistratura e la libertà di stampa.
Terzo punto l’Europa: qual è questa Europa umanista e patria dei diritti che desideriamo? Su questo i cattolici devono riflettere per rilanciare il progetto di integrazione. Non basta rievocare l’Europa sociale di ieri, che le sinistre europee stesse si sono applicate a sminuire accettando le logiche liberiste che non erano parte del loro bagaglio culturale. Troppo facilmente le sinistre hanno abbandonato la difesa dell’idea di Europa sociale perché considerata troppo costosa: i costi umani sono stati molto peggiori, come si constata oggi. Occorreva invece negoziare con il liberismo per trovare una nuova sintesi. È ciò che va costruito adesso, ma in una situazione ben peggiore di quella di venti-trent’anni fa, quando serviva farlo. Siamo in un mondo in cui gli stati si frantumano e nel quale è stata riabilitata la guerra come strumento di risoluzione delle contese. L’Europa di domani non può favorire la politica della contrapposizione né delle armi. Non tanto per un pacifismo ideologico ma per esperienza: l’Europa è il continente che sa meglio degli altri quanto le guerre siano inutili e quanto lascino il mondo peggiore di come lo hanno trovato. L’atroce esperienza delle due guerre mondiali lo dimostra: il never again, il “mai più la guerra”, rappresenta il lascito europeo, il pensiero europeo sulla guerra offerto al mondo. Va ripreso e rafforzato con argomenti concreti: la guerra è uno strumento inutile che prepara guerre successive, nutrendo rancore e voglia di rappresaglia. L’infinita catena delle guerre mediorientali lo dimostra. Un’Europa che sia una Nato-bis non serve a niente e a nessuno. Ciò non significa che l’Europa non debba avere una sua propria strategia di sicurezza e difesa: significa invece che tale strategia deve sempre essere accompagnata da un’idea politica sulla pace, cioè da un’architettura politica di tale sicurezza. Una politica della contrapposizione senza dialogo, che vede solo “nemici esistenziali” attorno, non fa che peggiorare le cose. È il problema che abbiamo oggi con la guerra in Ucraina. Va da sé che su tali argomenti i cattolici sono depositari di un magistero teologico senza pari che si nutre di un’idea non nazionalista, cioè non esclusivista, delle relazioni tra paesi e popoli. Per la chiesa la guerra è un terreno impossibile, una scelta di guerra civile che non può essere mai avallata. Davanti alla guerra i cattolici si impegnano – anche prima della fine dei combattimenti – a ricercare una via di pace costruendo canali e ponti di dialogo. Torna qui il concetto che non esiste un nemico assoluto, o per meglio dire che ogni nemico possa essere convinto a dimettere la propria inimicizia per iniziare un cammino diverso di conciliazione e pace.
È questo il senso attualizzato delle parole di Karl Barth: la chiesa non conosce avversari e nemici ma tratta tutti come uomini e donne. Per rammentare le parole del patriarca ecumenico Atenagoras si potrebbe ripetere: “Tutti i popoli sono buoni. Ognuno merita rispetto e ammirazione. Ho visto soffrire gli uomini. Tutti hanno bisogno di amore. Se sono cattivi, è forse perché non hanno incontrato il vero amore, quello che non spreca parole ma irradia luce e vita. So pure che esistono forze oscure, demoniache, che a volte si impossessano degli uomini, dei popoli. Ma l’amore di Cristo è più forte dell’inferno. Nel suo amore troviamo il coraggio di amare gli uomini, e veniamo a scoprire che, per esistere, abbiamo bisogno che tutti gli uomini e tutti i popoli esistano”. Ovviamente nessuno è ingenuo davanti all’operato di alcuni regimi non democratici che puntano tutto sul conflitto. È necessaria una ricerca di pace che sia realista. Lo stesso patriarca metteva in guardia su un’unità dei popoli arida, basata solo sugli interessi o sull’equilibrio delle forze, sprovvista cioè di spirito evangelico: se ci sono dei popoli fratelli è perché ci devono essere delle chiese sorelle che parlino al cuore dei popoli. Oggi tale monito ci indica quale può essere il ruolo dei credenti: dare un’anima alle strutture ancora troppo economiciste e tecnocratiche dell’Europa attuale che hanno privilegiato gli interessi correnti degli stati membri e non una visione unitaria futura. Non si tratta di accusare gli interessi ma di evidenziare la mancanza di un interesse superiore, concorde e proiettato verso il domani. Per i cattolici non si tratta di aggiungere qualche liturgia simbologica alle istituzioni attuali ma di operare una vera e propria ricerca di senso. Quest’ultima non si può ottenere se non alzando lo sguardo dell’Europa da sé stessa per indirizzarlo verso il mondo: cosa può offrire agli altri continenti senza imposizioni? Forse i cristiani devono forzare un discorso nuovo sulla pace come imperativo della storia e radicare l’Europa tra la gente mediante una rivoluzione spirituale che inizi da loro stessi. Occuparsi di più e meglio delle tragedie altrui, anche quelle lontane, senza l’ambizione di imporre alcunché se non una cultura umanistica, darebbe a quest’Europa in ricerca una maggiore credibilità e più legittimità alle sue parole.
(Foto: www.chiesadimilano.it. Adenauer, De Gasperi e Schuman)