Quali requisiti per l’accesso al suicidio assistito? Che cosa si intende per trattamenti di sostegno vitale (TSV)? È possibile e quando sospenderli? Sono solo alcuni dei più problematici e attuali interrogativi presi in considerazione dalla recente sentenza della Corte costituzionale (n.135/2024). Che riprende e ribadisce la precedente pronuncia (n.242/2019).

Il caso all’attenzione della Consulta si riferisce al suicidio assistito di M.S., toscano quarantaquattrenne, affetto da sclerosi multipla, patologia irreversibile, con significativo e rapido peggioramento delle condizioni di vita. Impossibilitato a muoversi dal letto, con pressoché totale immobilizzazione anche degli arti superiori. Con sofferenze psicologiche reputate insostenibili e non tollerando più di trovarsi «ingabbiato con la mente sana in un corpo che non funziona». In quella che, nel suo apprezzamento, «non era più una vita dignitosa».

Al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, M.S. aveva espresso la propria determinazione al suicidio assistito. Che avvenne in Svizzera dopo aver «confermato definitivamente la sua volontà e, utilizzando il braccio che ancora poteva controllare, assumendo per via orale un farmaco letale».

La questione origina dal procedimento penale contro tre persone «per aver organizzato e poi materialmente eseguito l’accompagnamento di M.S. presso la clinica svizzera dove è deceduto in seguito a procedura di suicidio assistito».

M.S. aveva formato la propria decisione di ricorrere al suicidio assistito in modo libero e consapevole. Secondo quanto riportato dal GIP del Tribunale di Firenze nell’istanza alla Corte costituzionale, M.S. non risultava in uno stato di dipendenza da TSV. Vale a dire che non faceva ricorso, ad esempio, a supporti come nutrizione, idratazione e ventilazione artificiale né sottoposto a terapie farmacologiche salvavita. Inoltre, «pur conservando integre tutte le altre funzionalità corporee, a causa della progressiva immobilizzazione degli arti, M.S. aveva bisogno con sempre maggiore frequenza del supporto di terzi per le attività fisiologiche quotidiane».

In sintesi, nell’istanza alla Corte si afferma che per «trattamenti debba intendersi  il riferimento ai soli trattamenti sanitari»; che la stessa Corte «non abbia fornito una definizione del concetto di TSV (sentenza sul caso Dj Fabo – n.242/2019) salvo il riferimento (ordinanza n.207/2018) – con evidente valenza esemplificativa – a trattamenti quali  la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali»; che «l’assistenza prestata genericamente da terzi – ad esempio per agevolare il paziente nel mangiare o per accompagnarlo in bagno – non sarebbe riconducibile all’insieme dei significati attribuibili a trattamento, il quale evocherebbe non un qualsiasi intervento esterno, ma una più pregnante e qualificata ingerenza sul corpo e sulla salute del paziente».

Tralasciando altre considerazioni di pertinenza giuridica, l’istanza si sintetizza nella richiesta alla Corte di «dichiarare costituzionalmente illegittima la non punibilità di chi agevola l’altrui suicidio alla circostanza che l’aiuto sia prestato a una persona tenuta in vita da TSV».  Quindi rimuovere il requisito della dipendenza da TSV, ritenendolo in contrasto con i principi costituzionali di eguaglianza, di autodeterminazione terapeutica, di dignità della persona. In particolare, secondo l’istanza, l’aspetto certamente prioritario è che nel caso M.S. mancherebbe il requisito della dipendenza da TSV.

Ecco il principale interrogativo bioetico. Alcune considerazioni, limitatamente a quest’aspetto che ha suscitato la maggiore attenzione e con posizioni interpretative divergenti.

La Corte conferma i requisiti richiesti per l’accesso al suicidio assistito e già definiti con la sentenza n.242/2019: (a) irreversibilità della patologia, (b) presenza di sofferenze fisiche o psicologiche, che il paziente reputa intollerabili, (c) dipendenza del paziente da TSV, (d) capacità del paziente di prendere decisioni libere e consapevoli. Requisiti che devono essere verificati da una struttura pubblica del SSN, previo parere del Comitato Etico territorialmente competente e nella disponibilità di cure palliative «il cui accesso deve essere necessariamente assicurato al paziente». Procedura che coinvolge direttamente il SSN anche nel «verificare le relative modalità di esecuzione, le quali dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze».

Premessi questi criteri, è necessaria una precisazione. La Corte «non riconosce un generale diritto di terminare la propria vita in ogni situazione di sofferenza intollerabile determinata da una patologia irreversibile», ma riconosce «l’accesso al suicidio assistito di pazienti che abbiano già il diritto di decidere di porre fine alla propria vita, rifiutando il trattamento necessario ad assicurare la sopravvivenza».

Si richiama, in particolare,  che «la nozione di TSV deve essere interpretata dal Servizio Sanitario Nazionale e dai giudici comuni in conformità alla ratio della sentenza n.242/2019. Questa sentenza si basa sul riconoscimento del diritto fondamentale del paziente a rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e invasività».

E a tal proposito, la specificazione fondamentale della Corte che «include anche procedure – quali ad esempio l’evacuazione manuale, l’inserimento dei cateteri o l’aspirazione del muco dalle vie bronchiali – normalmente compiute da personale sanitario, ma che possono essere apprese anche da familiari o caregivers che assistono il paziente, sempre che la loro interruzione determini prevedibilmente la morte del paziente in un breve lasso di tempo».

Si determina, inoltre, che ai fini dell’accesso al suicidio assistito non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a TSV , di cui può chiedere l’interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali.

La Corte non provvede a una definizione tecnico-scientifica dei TSV, né avrebbe potuto, pur tuttavia richiama il criterio chiave. Vale a dire che possono essere considerati TSV quando la interruzione determina la morte in un breve lasso di tempo. Quindi, possiamo dire, che non modifica la precedente Sentenza (n.242/2019) di riferimento, non innova né amplia i TSV. Piuttosto «ribadisce gli attuali requisiti e ne precisa il significato».

Nel nostro ordinamento manca una definizione normativa di TSV. L’unico riferimento è nella Legge n.219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) che include nutrizione e idratazione artificiale tra i trattamenti sanitari cui il malato può rinunciare o rifiutare.

Sotto il profilo tecnico-scientifico non si riscontra una definizione unanime di TSV, vista la complessità della moderna prassi clinico-assistenziale. In cui è frequente l’uso simultaneo ed integrato di apparecchi, presidi, farmaci, atti sanitari di competenza medica e infermieristica modulati secondo la specifica situazione clinica del paziente.

Sui TSV è intervenuto recentemente il Comitato Nazionale per la Bioetica (Cnb). Anche il Parere  rileva che in letteratura medica non esiste una definizione condivisa di TSV.  Al fine di poter offrire una risposta, il Cnb ha unito le considerazioni cliniche, bioetiche e giuridiche sottese alla sentenza della Consulta (n.242/2019). Si configura nel Parere l’elaborazione di un criterio flessibile, che permetta d’inquadrare i TSV in relazione a finalità, intensità e conseguenze alla sospensione.

Finalità: i TSV sono indirizzati alla risposta a condizioni che mettono a rischio la vita, in un arco di tempo breve o addirittura brevissimo (quando si tratta non di un semplice “sostegno”, ma di una vera e propria “sostituzione” di una funzione vitale che l’organismo è ormai del tutto incapace di assicurare autonomamente).

Intensità: i TSV impiegano spesso tecnologie avanzate e procedure specialistiche, e possono implicare una forte invasività e continuità nel tempo. Non vanno confusi con un trattamento o un farmaco salvavita (per esempio l’adrenalina per lo shock anafilattico).

Sospensione: la sospensione di un TSV provoca conseguenze fatali immediate o comunque rapide, in relazione al tipo di trattamento e alle condizioni cliniche del paziente

Da questi criteri, il Parere fa una distinzione tra trattamenti ordinari e TSV. I primi sono orientati al miglioramento quali-quantitativo della sopravvivenza. I TSV, a loro volta, sono orientati a mantenere in vita un paziente affetto da una condizione critica, con compromissione di organi la cui insufficienza grave comporta una morte immediata o prossima, quando le relative funzioni non siano supportate o interamente sostituite da mezzi adeguati.

Il Parere è stato approvato a maggioranza. Componenti del Cnb hanno espresso una posizione  diversa, dando rilievo in particolare all’autonomia della persona che definisce il limite invalicabile dell’intervento sociale. Da cui il diritto al rifiuto delle cure, comprese le cure palliative. Inoltre, e considerazioni non secondarie, i TSV non sono da considerare solo i dispositivi meccanici ma i trattamenti di carattere anche farmacologico o assistenziale dalla cui sospensione consegue, anche in tempi non rapidi, la morte del paziente. Inoltre, si richiama che una interpretazione restrittiva dei TSV sarebbe discriminatoria, come nel caso di pazienti oncologici terminali non dipendenti da un  dispositivo meccanico, e paradossale perché per accedere al suicidio medicalmente assistito un paziente dovrebbe chiedere di essere attaccato a un dispositivo che rifiuta dal momento che – data la sua condizione ormai giunta alla fine della vita – non ne ha bisogno.

Ritornando alla Sentenza della Corte (n.135/2024), in estrema sintesi, potremmo dire che emergono i seguenti elementi significativi: 1) si afferma che non sussiste un diritto assoluto al suicidio assistito; 2) si ribadisce il diritto a rifiutare qualsiasi trattamento medico non imposto per legge, anche se necessario per la sopravvivenza e indipendentemente da complessità tecnica e invasività; 3) si precisa il diritto a rifiutare procedure la cui interruzione determina prevedibilmente la morte in un breve lasso di tempo; 4) si riconosce che ogni vita è portatrice di una inalienabile dignità, indipendentemente dalle condizioni in cui si svolge; 5) si sostiene il bilanciamento tra autodeterminazione e dovere di tutela della vita umana; 6) si conferma il rispetto delle condizioni procedurali fissate dalla sentenza n.242/2019; 7) si richiama la verifica da parte delle strutture pubbliche del SSN nell’ambito della «procedura medicalizzata» e previo parere del Comitato Etico territorialmente competente.

In definitiva, si ribadiscono e si specificano principi e criteri della precedente sentenza del 2019 sul caso Dj Fabo. Ovvero non si innova né si amplia. Riportando la dichiarazione di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte, «i criteri che definiscono i sostegni vitali restano insuperabili. Il dispositivo della Corte costituzionale è in completa linearità con la sentenza-madre del 2019. Avendo già fissato i paletti, dosando attentamente i diritti in gioco, assumendo come punto di partenza l’inviolabile dignità della vita umana». Ribadendo, poi, l’importanza dei criteri che guidano l’interpretazione e non viceversa. «Se una persona, un terzo, favorisce la volontà di non ricevere un trattamento, stante anche le altre tre condizioni – irreversibilità, sofferenze, piena consapevolezza – non è punibile. Non vedo la novità, l’allargamento, la “svolta”. È noto che in alcune circostanze determinati trattamenti sono dei veri e propri sostegni della vita senza i quali arriverebbe la morte in breve tempo».

Last, but not least il ruolo e le responsabilità del legislatore. Ebbene, ancora una volta la Corte stigmatizza la perdurante assenza di una legge che possa regolamentare materia così complessa e divisiva. Nel rispetto delle prerogative parlamentari, «la Corte ha espresso il forte auspicio che il legislatore e il SSN assicurino concreta e puntuale attuazione ai principi fissati dalla propria precedente sentenza (n.242/2019). Ferma restando la possibilità per il legislatore di dettare una diversa disciplina, nel rispetto dei principi richiamati». Con altrettanto forte esortazione «affinché sia garantita a tutti i pazienti una effettiva possibilità di accesso alle cure palliative appropriate per controllare la loro sofferenza». Ebbene, a tutt’oggi, cinque DdL sono in trattazione al Senato in sede redigente presso le Commissioni Giustizia; Affari sociali, sanità, lavoro pubblico e privato, previdenza sociale.

È quanto mai opportuno favorire dialogo e discernimento. Nell’epoca definita della “globalizzazione del paradigma tecnocratico”, una particolare attenzione deve essere riservata al “limite” in situazioni di inguaribilità. Filo conduttore è la prospettiva etico-assistenziale in cui alla inguaribilità corrisponde sempre la doverosità della curabilità ovvero del “prendersi cura degli aspetti fisici, psicologici, relazionali, spirituali. Imprescindibile principio di riferimento etico, giuridico e deontologico.

Immagine generata con Canva

  • Lucio Romano

    Medico Chirurgo e docente di Bioetica. Componente Comitato Scientifico “Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica”. Senatore della Repubblica nella XVII Legislatura. https://lucioromano.it