La larghissima maggioranza di quanti sono impegnati per l’abrogazione della Legge 86/2024 non è contro l’Autonomia Differenziata (AD), tantomeno è contro l’ “Autonomia”, senza aggettivi, come la chiamano astutamente i leghisti e il resto della maggioranza. Al contrario, rimane profondamente convinta del valore dell’Art. 5 della Costituzione. Continua a condividere una declinazione dell’AD coerente con il principio di sussidiarietà: un’attribuzione di competenze legislative esclusive alle Regioni strettamente connessa alle specificità di ciascun territorio, attenta alla dimensione territoriale efficiente e ferma nella salvaguardia della Repubblica una e indivisibile.
La contrarietà è, invece, rivolta all’interpretazione estrema dell’AD consentita, ahinoi, dalla illimitata norma di differenziazione introdotta in Costituzione nel 2001, assunta senza alcuna restrizione a riferimento della Legge Calderoli e messa nero su bianco dai Presidenti delle Regioni del Nord nelle bozze di Intesa concordate, il 25 Febbraio 2019, con la Ministra Stefani. Bozze che rimangono in vita in base all’Art. 11 della suddetta Legge, come ha ricordato il Presidente Zaia in una lettera alla Presidente del Consiglio per chiedere di riprendere subito il “negoziato” sulle 9 materie senza Lep.
In tale scenario, l’AD fa male anche a lavoratori, imprese e famiglie del Nord per almeno 5 ordini di ragioni (le approfondisco in “L’Autonomia differenziata fa male anche al Nord”, prefazione di Pier Luigi Bersani, da qualche giorno in libreria per Castelvecchi):
1) La Legge del Governo Meloni contraddice in radice il principio cardine del federalismo: la responsabilità politica del prelievo delle tasse, ossia delle risorse da spendere, in capo ai governi territoriali titolari delle spese. Qui, la Regione differenziata non ha alcuna responsabilità: le entrate derivano interamente da compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturati sul “suo” territorio. In sostanza, la Regione si prende, a seconda di quanto definito nell’Intesa negoziata con Palazzo Chigi, una quota di Irpef, di Ires, di IVA a prescindere dall’efficienza nell’utilizzo. Anzi, poiché le basi imponibili delle principali imposte erariali compartecipate da Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna crescono più della spesa corrente da finanziare, ancorata alla “traiettoria” definita da Bruxelles, gli incentivi piegheranno verso l’inefficienza e gli sprechi.
2) Anche il Nord subirà gli effetti del declassamento politico di un’Italia ritornata “espressione geografica”. Quale peso politico può avere a Bruxelles e nelle relazioni internazionali un Presidente del Consiglio senza il controllo legislativo sulle principali materie economiche, sociali, infrastrutturali? Vero: Germania, Spagna, Austria, ecc. sono Stati federali e negoziano autorevolmente. Attenzione però: noi saremmo, come per il “premierato”, un unicum nel globo terraqueo, poiché tutti gli Stati federali hanno una Camera delle autonomie territoriali per raccordare i livelli di governo sussidiari e dare flessibilità ai poteri legislativi regionali. Noi, invece, avremmo 21 Intese rigide, soggette al veto del Presidente della Regione per le modifiche.
3) In un quadro di federalismo competitivo, il Nord subirà gli effetti del dumping regolativo e salariale del Sud. Le norme su standard ambientali, igiene alimentare, sicurezza sul lavoro, urbanistica, ecc si sposteranno verso i requisiti minimi previsti dalla disciplina dell’Ue (dove esistono). Inoltre, a seguito della regionalizzazione del lavoro pubblico (dalla scuola alla Sanità), si spezzeranno i CCNL dei settori privati, cosicché la retribuzione lorda giocherà ancor di più per la concorrenza al ribasso.
4) Si moltiplicheranno per 21 le norme e gli adempimenti amministrativi da attuare. Sarà un incubo per le piccole e imprese del Nord che producono o vendono in più Regioni. Inoltre, diventerà ancora più complicato e lungo realizzare infrastrutture nazionali strategiche per l’energia, per la mobilità stradale, ferroviaria, marittima e aerea poiché le Regioni in prima fila per l’AD rivendicano anche il potere di autorizzarne il passaggio sul “loro” territorio. Infine, le nostre aziende saranno indebolite nella competizione europea e internazionale dall’assenza del sostegno politico-diplomatico dello Stato (ad es. il commercio estero, senza Lep, diventerà di competenza esclusiva delle Regioni).
5) Aumenterà il costo di mutui e prestiti per imprese e famiglie. Il canale di trasmissione è il tasso di interesse sui nostri Titoli di Stato. Il debito pubblico rimane al Tesoro, parte dei tributi erariali è trattenuta dalle Regioni. È un nodo cruciale per un debitore malmesso come noi. Nessun problema se le entrate erariali sottratte al centro fossero strettamente correlate al finanziamento delle spese trasferite. Non è così, come accennato al punto 1). Nelle bozze di Intesa sottoscritte con la Ministra Stefani e tenute in vita dalla Legge Calderoli è scritto: «L’eventuale variazione di gettito maturato sul territorio delle Regione dei tributi compartecipati […], rispetto alla spesa sostenuta dallo Stato nella Regione o, successivamente, rispetto a quanto venga riconosciuto in applicazione dei fabbisogni standard, anche nella fase transitoria, è di competenza della regione.» Chiaro? Le risorse a garanzia del debito pubblico diventano sempre più esigue. Quindi, in stretta correlazione, salgono i rischi di sostenibilità, i tassi di interesse pagati dallo Stato e, a valle, le rate dei debitori privati.
Arrivati qui, gli “autonomisti differenziatori estremi” invocano anche per il Nord la protezione dei mitici Lep, divinità venerate da un quarto di secolo, ma piuttosto sfuggenti. I Lep hanno anche per il Nord scarsa efficacia. Perché? In primo luogo, va segnalato che soltanto una parte delle materie è dotata di Lep. In secondo luogo, vale quanto vergato da Ignazio Visco in una lettera a Sabino Cassese, Presidente della Commissione per i Lep: «le prestazioni qualificate come LEP effettivi […] sono nella maggior parte dei casi formulate in termini troppo generici, in buona parte riconducibili a mere dichiarazioni di principio.» Nel nostro quadro di finanza pubblica, per superare il rilievo di Banca d’Italia, i Lep potrebbero essere fissati soltanto a livelli infimi.
Sbaglieremmo, però, se liquidassimo l’offensiva espressa dalla destra nordista come egoismo di territorio. Per una una controffensiva efficace, va letto l’impoverimento relativo del “cittadino medio” veneto, lombardo ed emiliano-romagnolo. Se lo approssimiamo con il PIL pro capite in termini reali della Regione, registriamo che, negli ultimi 20 anni, Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna sono andate indietro non soltanto rispetto alla media delle regioni dell’Ue, ma anche rispetto ad alcune Regioni del Mezzogiorno. In sostanza, la famiglia media di ogni Regione italiana è retrocessa. Quella del Nord spesso più di quella del Sud. In sintesi, è sempre più forte sul Nord la tensione tra il “vincolo esterno”, determinato dallo sleale mercato globale e dall’altrettanto sleale mercato unico europeo, e il “vincolo interno”, definito dai principi costituzionali di solidarietà. È una tensione vera, da affrontare con politiche adeguate sul versante nazionale e sul versante Ue e internazionale.
In conclusione, esiste anche una “questione settentrionale”. Ma la rotta dell’AD estrema porta al naufragio tutti, anche le Regioni “più forti”. Chi giustamente si oppone, deve evitare di schiacciarsi e farsi schiacciare dentro la “guerra civile” sudisti contro nordisti. È una narrazione fallace, quindi perdente.
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