In uno spot pubblicitario che passa ripetutamente sui nostri schermi in questo periodo si afferma “In Italia ci sono duecento tipi di pane”. Al di là della sua veridicità, questa affermazione mi fa sempre riflettere perché combina insieme quanto di più basilare esiste nell’alimentazione – appunto: il pane – con una possibilità che esso assuma forme, colori sapori, finalità diverse. Perché apro una riflessione sul patriarcato con questa considerazione? Perché penso che il patriarcato sia come il pane. Tutti sappiamo cosa è: come il pane, è l’alimento base della nostra vita collettiva, ma poi almeno duecento sono le modalità con cui esso si manifesta, entra nelle nostre storie quotidiane e, paradossalmente, le alimenta. Perché ne costituisce la struttura portante, anzi una sorta di midollo da cui prendono vita tutte le funzioni vitali.
Quando parliamo di patriarcato dobbiamo sapere che è termine totalitario e totalizzante. Fino al punto che, se si vuole proprio andare fino in fondo a estirparlo dal nostro tessuto relazionale, dobbiamo cominciare a parlarne addirittura in rapporto a Dio stesso. Alcuni filoni teologici, soprattutto in ambito femminista, hanno già cominciato a decostruire una lunga tradizione che già all’interno della Bibbia stessa è intrisa dalla coincidenza tra Dio e patriarcato. Ed è però altrettanto vero che, sempre nella Bibbia – prodotto letterario e teologico di culture patriarcali – sono rintracciabili potenti fermenti di contestazione dell’assetto sociale e religioso patriarcale. Uno dei duecento tipi di patriarcato, in fondo, è proprio quello che, sulla spinta epocale del femminismo, sta cercando di ripensare sé stesso, di deporre le insegne del potere, di lasciarsi trasformare dall’interno in qualcosa che ancora nessuno sa bene cosa potrà essere, ma i visionari e, soprattutto, le visionarie del nostro tempo sono convinti che porterà a termine la sua metamorfosi. Chissà quanto tempo ci vorrà perché la democrazia arrivi a diventare l’unico assetto possibile anche per le relazioni tra i sessi.
Mi scuso se vado sempre a parare in ambito biblico o teologico: mestiere! Qui, in realtà vorrei proporre un tipo di riflessione diversa, da cui certo non sono esclusi né il versante biblico né quello teologico perché, come ha scritto Michela Murgia, Bibbia e teologia insegnano un’ermeneutica della vita, quella di ciascuno e quella di tutti, di grande respiro che ha come chiave interpretativa la libertà. In principio, però, era il patriarcato e, finché non capiamo questo, non parteciperemo mai a quella magnifica metamorfosi dopo la quale il mondo si risveglierà finalmente un po’ più giusto. Provo perciò a partire da un’altra parte. Qualcuno ha scritto che “La tragedia del femminicidio di Giulia Cecchettin assume la forza dell’antica tragedia greca”.[1] Non tanto o non soltanto perché, come l’enfasi della cronaca nera ci ha istigato a pensare, gli ingredienti di quel femminicidio siano stati più efferati: le coordinate profonde dei femminicidi non sono soltanto quelle sociologiche dell’età della vittima, del contesto sociale del carnefice, delle sue possibili devianze psichiche, della presenza o meno di figli, ma passano attraverso il tessuto connettivo della società all’interno della quale quei gesti si consumano, della sua storia, della sua cultura, della sua civiltà, cioè della sua memoria collettiva, ma anche del suo impianto giuridico, del suo discorso pubblico sul piano politico e su quello religioso, della sua capacità recettiva e della sua tensione trasformativa. Da questo punto di vista, è giusto dire che tra Giulia Cecchettin e le innumerevoli altre vittime di femminicidio che con i loro nomi potrebbero riempire un intero calendario sono più i punti di contatto che non le differenze perché un femminicidio è sempre la lugubre messa in scena del punto fino a cui può spingersi la più odiosa e la più arbitraria delle pretese gerarchiche, quella fondata sulla differenza sessuale.
Se l’uccisione di Giulia è entrata a far parte del discorso pubblico in modo così potente, però, è perché un’altra donna, sua sorella Elena, ha dato alla vittima le parole per dire, anzi per urlare, il suo giudizio non solo sul suo assassino, ma sull’humus che lo ha generato e alimentato lungo la sua pur breve vita, quell’idra a sette teste che chiamiamo patriarcato. Pronunciando con forza quel “je accuse” Elena ha consentito che la morte spietata di sua sorella non facesse tanto deflagrare, come sempre, l’apparato collettivo emotivo e sentimentale, ma obbligasse a ragionare, a discutere, a elaborare reazioni e pensieri, discorsi e silenzi. E quei ragazzi che, nella piazza in cui assistevano alla celebrazione del funerale, hanno rifiutato di rispettare il rituale di un omertoso minuto di silenzio e si sono fatti sentire con un minuto di composto quanto lacerante rumore di chiavi hanno perfettamente svolto la funzione tutt’altro che marginale che, nella tragedia greca, è riservata al coro.
La reazione che ne è seguita sui mezzi di comunicazione, scomposta negli argomenti e feroce nei toni, ha purtroppo confermato però la triste realtà: se nel nostro paese la cultura dominante, cioè la più diffusa nel discorso pubblico, non sarà in grado di portare a parola quanto riguarda il patriarcato, di esaminarlo, discuterlo, valutarlo, di considerarlo per quello che è e cioè una condizione antropologica che determina una situazione politica di strutturale prevaricazione non ne usciremo mai. Se le istituzioni non prenderanno sul serio il fatto che sfuggire a questo compito epocale del superamento della gerarchia fondata sulla differenza sessuale sta condannando le nostre società a vivere nel terrore di un agguato permanente da parte di chi incarna uno o più dei duecento tipi di patriarcato a cui finora è stata concessa l’immunità, sia esso il fidanzato o il datore di lavoro, il regista o il prete, il marito o il professore, saremo condannati a una barbarie-di-ritorno peggiore di quella da cui siamo venuti.
Per quanto mi riguarda da vicino, ho lavorato per trent’anni nella scuola e per venti in una facoltà teologica, appartengo a una chiesa in cui ogni tre per due si scoperchia un vaso di pandora da cui escono orchi mascherati da preti. Sono inserita in un mondo, quello delle democrazie occidentali, in cui si cerca, sia pure con grande fatica e non pochi abbagli, di dare ascolto alle voci delle donne e di confrontarsi con le loro legittime pretese. Vedo però che il collasso del patriarcato, tanto enfatizzato dalle prime generazioni femministe, è in realtà ancora tutto da perseguire, nei vicoli prima ancora che lungo le autostrade, nei cortili prima ancora che nei parlamenti. E vedo con grande preoccupazione che le più importanti agenzie formative, la scuola, le chiese, i partiti e i parlamenti, ma soprattutto i mezzi di comunicazione rivelano tutta la loro inadeguatezza di fronte al compito di contribuire a quella metamorfosi sociale che comporta la fine del regime patriarcale. Perché? Certamente perché sono in mano a uomini e donne che, consciamente o meno poco importa, sono connaturali all’assetto patriarcale delle relazioni tra i sessi, tra i gruppi sociali, tra le istituzioni. Soprattutto però perché sono le donne che hanno lasciato la presa: il trapasso generazionale ha reso il loro esodo faticoso, la nostalgia per le cipolle d’Egitto si è fatta pressante, il vitello d’oro di una comunicazione tossica ha smantellato, insieme al ruolo delle ideologie, anche l’importanza delle idee. Forse, ogni conquista non può che procedere così e la mia generazione di donne che hanno fatto propria la lotta di liberazione dal patriarcato deve rassegnarsi, come Mosè, a non entrare nella terra promessa, ma a guardarla solo da lontano. Ancora una metafora biblica: mestiere!
[1] Marco Campedelli, Lessico disobbediente. Parole per una rivoluzione quotidiana, San Pietro in Cariano (Il segno dei Gabrielli) 2024, 117.