Di che altro c’è bisogno perché certi osservatori di casa nostra la smettano di negare l’evidenza dell’isolamento nel quale si è cacciata Meloni con grave danno per il nostro paese? Non sarebbe neppure il caso di invocare un briciolo di onestà intellettuale. Sarebbe sufficiente dare mostra di non esorcizzare la mucca nel corridoio.
Mettiamo in fila fatti, non opinioni, limitatamente alla Ue e alle ultime settimane.
Primo: già a monte, nel Consiglio Ue che ne discusse, il voto contrario di Meloni sul nuovo presidente (Costa) e sull’alto rappresentante Ue per gli affari esteri (Kallas) e la sua astensione (poi spintasi sino al voto contrario) sul secondo mandato alla von der Leyen. Uno strappo senza precedenti nella storia dei governi italiani con la Ue.
Secondo: le defezioni subite dalla famiglia politica dei conservatori e riformisti europei (Ecr) da lei presieduta con destinazione Patrioti di Orban e Le Pen. Con tanti saluti alla velleità di rappresentare il terzo grande gruppo politico europeo.
Terzo: alla stretta del voto nell’Europarlamento la diaspora persino tra coloro che erano rimasti nel suo raggruppamento con il risultato della sostanziale dissoluzione dell’Ecr. A conferma di un gruppo a sua volta diviso e che lei non era più in grado di governare.
Quarto: la finale decisione del voto contrario alla presidente della Commissione mettendo così a verbale subalternità e schiacciamento sugli estremisti Patrioti. Aggravato, ex post, dalla rivendicazione del carattere genuinamente politico del suo diniego. Un suo ritorno a casa, alla casella numero uno.
Quinto: la sconfitta nell’obiettivo di ottenere per l’Italia un vicepresidente esecutivo della Commissione, cui è seguita una seconda sconfitta nella mancata assegnazione al nostro paese del responsabile Nato per il fronte sud. Uno smacco cui Crosetto ha reagito gridando all’affronto personale (?). Non basta: da subito, nella distribuzione delle presidenze delle Commissioni dell’Europarlamento, non una di esse è andata ai partiti della maggioranza nostrana, due invece a PD (Decaro) e M5S (Tridico). Ennesimo segnale di marginalità.
Sesto: la spaccatura tra i due vicepremier Tajani e Salvini e le astiose polemiche a seguire. Con il primo che, contestando al secondo l’irrilevanza dei Patrioti – se le parole hanno un senso – includeva indirettamente tra gli irrilevanti chi con essi ha finito per votare. Appunto la premier. Tajani, grazie al suo grigiore, sarà pure il meno scomposto della compagnia, sbraca di meno, ma anche lui fa troppe e contraddittorie parti in commedia: moderato e sostenitore della Ursula in Europa, ma servizievole in Italia in un esecutivo la cui premier si è messa fuori dalla governance Ue e il cui altro vicepremier le spara contro.
Settimo: le parole urticanti con le quali von der Leyen ha esordito dopo la sua rielezione per definire la maggioranza che le ha dato fiducia ovvero «l’arco delle forze democratiche ed europeiste», iscrivendo implicitamente Fdi nel campo recintato da una sorta di cordone sanitario.
Ottavo: che le cose stiano così lo dimostrano gli opinionisti compiacenti che, avendo generosamente accreditato Meloni come leader compiutamente integrata nel gotha europeo, davano per scontato che essa non si sarebbe messa fuori e contro i vertici Ue e che, di conseguenza, imbarazzatissimi, si sono mostrati increduli e afflitti. Spiazzati e vestiti a lutto.
Fatti, non opinioni e, come usa dire, i fatti hanno la testa dura, a dispetto della ostinazione dei cortigiani.
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