Uno degli aspetti che appare ricorrente negli interventi e nei commenti di autorevoli ecclesiastici attorno alla Settimana sociale di Trieste – penso ad interviste su “Avvenire” al presidente del comitato organizzatore mons. Renna o al vicepresidente della Cei mons. Castellucci – è la recriminazione per la polarizzazione politica nella democrazia (e in essa delle posizioni dei cattolici). Ora, diciamo che ce n’è ben donde: anche solo a un’analisi superficiale, come non concordare sul fatto che ci sia una condizione di estremo sfilacciamento del tessuto della convivenza democratica in alcune manifestazioni di sfiducia nelle regole, di arroganza delle maggioranze, di deriva verso lo scontro verbale senza possibilità di reciproca comprensione o tolleranza, di radicalizzazione delle polemiche per mera ragione di schieramento? Una democrazia sana è certamente anche una democrazia in cui i soggetti si riconoscono nella «casa comune», sono aperti alla possibilità di riconoscere le ragioni dell’altro pur se avversario, sono disponibili al government by discussion, non disprezzano possibili compromessi sulle questioni più delicate.

Quindi c’è senz’altro del vero nelle preoccupazioni sopra descritte. Però. Conoscendo un poco la storia e la cultura cattolica, credo sia il caso di intenderci bene sul senso in cui queste formule e questi giudizi costituiscono coscienza diffusa a livello di base nelle comunità cristiane. Non parlo naturalmente del pensiero degli autorevoli protagonisti sopra citati, ma del modo in cui può essere letta tale critica alla polarizzazione nella mentalità diffusa del mondo ecclesiale.

Intendo dire che questa affermazione rischia spesso di passare il segno e di arrivare ad essere critica di principio verso la contrapposizione politica, la dialettica, lo scontro tra le idee. Giungendo ad essere condanna pregiudiziale del concetto stesso di un sistema politico organizzato attorno a un discrimine bipolare. Il quale sistema è giudicato negativamente non perché – per ipotesi – male funziona secondo la fisiologia democratica, ma in quanto tale, perché non risponde a una memoria della cultura politica cattolica che si identifica con il concetto di centro (o se volete di centrismo).

Diciamo la verità: riappare in questo stato d’animo la nostalgia irrefrenabile dell’epoca democristiana, di una storia particolare del cattolicesimo politico che è stata capace di mediare tra istanze opposte e di presidiare saldamente un orizzonte contemporaneamente definibile come di moderazione e progresso, di tradizione e avanzamento. Niente di male in sé: anzi, forse questo tipo di nostalgia è anche comprensibile, a fronte di un certo scadimento della qualità dei comportamenti politici negli ultimi decenni.

Occorre però essere chiari: la Dc non solo è un modello certamente improponibile nel clima sociale e culturale attuale (non per caso o per fatalità, o per uno scherzo della storia, è finita traumaticamente). Ma di più, la sua centralità è un mito che va confrontato con una realtà storica in cui è bene rendersi conto che convivevano aspetti apprezzabili e aspetti quanto meno problematici. Avendo appena prodotto (con i due colleghi e amici Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio) un tentativo di storicizzazione di quella complessa esperienza, mi permetto di ricordare a questo proposito un solo aspetto fondamentale.

La Dc non era un partito polarizzato al suo interno, anzi. Ma era certamente un partito plurale e molto differenziato. Dal momento della cruciale scelta politica di De Gasperi nel 1947 di rompere la coalizione ciellenistica, il partito aveva scongiurato la creazione di una destra politica solida al suo esterno, interiorizzandone alcune istanze. Per cui, per tutti i suoi cinquant’anni di vita, la Dc aveva avuto una corposa componente moderata e certo direi anche conservatrice, vicina ai vecchi ceti dominanti del paese, timorosa dei cambiamenti e spesso portatrice di visioni securitarie e sbrigative nei confronti dei conflitti sociali. La parte della Dc che si riconosceva in Montanelli e Guareschi, per intenderci. Al contempo, però, il partito continuava ad avere al suo interno una componente riformatrice che aveva preso sul serio la prima parte (programmatica) della Costituzione, che era stata anzi propriamente farina del suo sacco. E intendeva svilupparla costruendo uno Stato democratico e sociale avanzato, dando cittadinanza alle classi popolari, riequilibrando più equamente il paese che era stato loro consegnato. C’erano insomma alcuni democristiani, che – amava dire riservatamente Kissinger (a suo modo prendendoci) – “non sono comunisti solo perché sono cattolici”. Detto in altro modo, la Dc stava sulla linea di faglia tra componenti diverse della società italiana: un rigido “partito dell’immobilismo” e un mobile “partito dell’evoluzione”: così ho proposto di chiamare queste visioni, sensibilità, campi di forze.

Tra queste componenti prevalse lungamente la necessità dell’unità, la pratica della mediazione, la scelta dell’attenuazione dei conflitti e della ricomposizione degli scontri. Non una scissione fu mai sperimentata (se non marginale e localistica). Anzi: i congressi in genere venivano risolti con larghe intese precedenti. Oppure, quando erano giocati sul piano della contrapposizione aperta tra ipotesi politiche ben definite e alternative (capitava anche questo: si pensi al 1959, al 1976, al 1980, al 1989), il loro esito veniva tradotto regolarmente in un compromesso successivo: il vincitore poche settimane dopo chiedeva ai perdenti di entrare in una direzione unitaria. Complice quella che Moro chiamava “condanna a governare” in una “democrazia difficile”, con l’opposizione egemonizzata da un forte partito almeno inizialmente antisistema come il Pci.

Da questo particolarissimo amalgama di prospettive, mentalità, condizioni, strutture politiche è scaturita indubbiamente anche – e qui veniamo al punto – una parabola di guida della società italiana prudente e cauta, ma non priva di intuizioni di orientamento e di scelte di cambiamento. C’è stato un riconoscibile itinerario di leadership riformiste, da De Gasperi stesso al primo Fanfani, da Moro a De Mita, schematizzando molto. Ma diciamolo con forza: quale è stato il lato B di questo discorso? È’ stata un’enorme fatica di ogni percorso riformatore, la necessità di tenere conto di un freno interno, di un “fuoco amico”, di un contrappeso permanente. Che ha reso estenuanti le forme del dibattito interno, ha depotenziato rapidamente ogni stagione innovatrice, giungendo addirittura nei momenti più problematici a produrre episodi preoccupanti per la stessa democrazia (si pensi alla crisi del luglio 1964).

Insomma, se si rimpiange (o di più, se si immagina di poter ricostituire) una forma politica del genere, bisogna rendersi conto sia delle sue virtualità, sia dei corrispettivi drammatici limiti. Non tutto fu rose e fiori nella centralità democristiana. Non a caso, gli eredi di quella storia hanno tentato fino all’ultimo di salvarne le forme, arrendendosi infine a una dinamica diversa, quella bipolare. Che – come tutte le vicende storiche – non corrisponde certo a un ideale assoluto, ma non può essere di per sé demonizzata solo per il rischio di produrre eccessi di radicalizzazione, insito nella sua logica. Va invece almeno parallelamente apprezzata per le sue virtualità: la chiarezza delle divisioni di fronte agli elettori, l’assunzione di responsabilità del proprio schieramento, l’attitudine a costruire sintesi coerenti e a perseguire progetti lineari, la disponibilità all’alternanza e al cambiamento con la costruzione dall’opposizione delle condizioni di un cambiamento politico.

 Quindi. Bene la critica agli eccessi della polarizzazione. Ma siccome invertire il quadro complessivo è oggi quasi certamente impossibile, è compito di chi voglia limitare e correggere questi eccessi non rimpiangere il passato, quanto piuttosto abitare il bipolarismo con animo temprato e con competenze pratiche virtuose, controllandone e depotenziandone i rischi e valorizzandone le non marginali risorse.

Certo, in questo orizzonte c’è un problema specifico per i credenti. Se la polarizzazione li raggiunge in modo indiscriminato, sorge il dubbio: “Sembra che faccia più presa l’appartenenza politica che quella ecclesiale, il che interroga la nostra capacità di evangelizzazione” (Castellucci). Questo è il punto: il problema non è politico, ma religioso. Ci si può infatti chiedere quale sia la capacità reale della formazione e dell’esperienza dei credenti a livello ecclesiale, che li metta in grado di effettuare le loro scelte – anche legittimamente diverse – in modo consapevole e non superficiale, senza dimenticare l’istanza critica e creativa del Vangelo come termine di riferimento essenziale. Interrogarsi a fondo su questo elemento è decisivo, e chiede di andare veramente in profondità: chiede di mettere in questione la qualità della fede e la testimonianza cristiana. La forza rinnovatrice della fede potrà senz’altro ispirare una presenza nell’orizzonte bipolare che non si faccia dettare l’agenda dall’esterno, ma sia in grado di valutare con criticità ogni soluzione, ogni istanza, ogni modalità di aggregazione, per quanto risponda al bene umano nel suo senso più incisivo. Non estraniandosi dalla storia, con rispetto e comprensione verso chi la pensi diversamente, ma con determinazione e coerenza.

(Foto: commons.wikimedia.org)

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.