La riforma fiscale del governo Meloni è stata varata con grandi ambizioni, ponendo come termine di riferimento la riforma Cosciani del 1972-1973. A undici mesi dall’approvazione della legge delega e dopo l’entrata in vigore di otto decreti legislativi (e altri due in corso di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale), ciò che si sta realizzando è molto lontano da quelle aspirazioni e, soprattutto, da quello che servirebbe al Paese.

I gravi limiti del nostro sistema tributario sono evidenti da tempo. Un carico complessivo relativamente elevato e, soprattutto, mal distribuito: eccessivo sui fattori produttivi e assai meno sulle rendite, a partire da quella immobiliare. Un’evasione fiscale in calo ma tutt’ora enorme e largamente diffusa. Una riscossione colabrodo, con un macigno di oltre mille miliardi di cartelle arretrate. Procedure e adempimenti spesso molto più complessi rispetto a quanto accade nel resto d’Europa.

Di fronte a problemi di questa portata, la riforma promossa dal governo Meloni ha prodotto risultati molto modesti: l’accorpamento dei primi due scaglioni IRPEF, finanziato però solo per il 2024; una deduzione maggiorata IRES per il costo del lavoro, coperta anch’essa solo per quest’anno; l’abolizione, in questo caso permanente, dell’Aiuto alla crescita economica (ACE), con un aggravio strutturale di 2,8 miliardi a carico delle imprese. Niente sul fronte IVA e IRAP. La legge delega enuncia l’obiettivo finale di un’unica aliquota IRPEF, ma questo totem ideologico è destinato (fortunatamente) a rimanere sulla carta: l’Italia a giugno è entrata in procedura per deficit eccessivo e il nuovo patto di stabilità e crescita avallato in Europa dal governo Meloni ha reintrodotto regole di finanza pubblica molto stringenti. Sarà già tanto confermare con la prossima legge di bilancio il taglio del cuneo fiscale e il primo modulo IRPEF. Tutto il resto è destinato a rimanere nel libro dei sogni.

Sono sicuramente più rilevanti gli interventi di carattere procedurale, dalla disciplina del contenzioso al potenziamento del regime di adempimento collaborativo, alle norme sugli adempimenti tributari, le sanzioni, la riscossione, l’accertamento, fino alla grande scommessa del concordato preventivo biennale. Facendo un primo bilancio, possiamo dire che gli obiettivi formali della riforma enunciati dalla legge delega rimangono lontanissimi. I pochi interventi di ridisegno del sistema tributario sono irrilevanti per quanto riguarda lo stimolo della crescita economica e della natalità e debolissimi in relazione alla razionalizzazione e semplificazione del sistema. Stendiamo un velo pietoso sulla prevenzione e riduzione dell’elusione e dell’evasione: buona parte delle scelte del governo sono andate nella direzione esattamente contraria, dall’innalzamento del tetto per l’uso dei contanti alla molteplicità di sanatorie e condoni che hanno costellato il primo anno e mezzo di mandato. Quanto alla pressione fiscale, i numeri del Documento di economia e finanza presentato due mesi fa dal ministro Giorgetti sono impietosi: in rapporto al PIL, nei prossimi tre anni rimarrà inchiodata nei dintorni del 42 per cento. Tutto tranne una riduzione epocale.

Se invece guardiamo agli obiettivi politici impliciti della riforma, il quadro cambia ed emerge il vero fil rouge che lega le principali decisioni economiche del governo Meloni: il consolidamento di un blocco sociale conservatore, che continuerà a beneficiare di trattamenti di favore con le cedolari per le rendite immobiliari e i redditi da partita IVA e di una sostanziale tolleranza verso l’evasione, e la difesa di un modello di sviluppo regressivo, caratterizzato da una esasperata frammentazione del sistema produttivo, da ampie sacche di sommerso, da una scarsa capacità innovativa e da una competitività basata sulla compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori. Questo è il disegno politico della destra, ed è in questo contesto che va letto lo spettacolo imbarazzante a cui ci è toccato assistere sulla questione redditometro. Uno strumento di impatto tutto sommato limitato, improvvidamente ripristinato dal viceministro Leo e rapidamente ritirato dopo il fuoco di fila di polemiche all’interno della maggioranza. Che di fronte alla sola evocazione di un qualche potenziamento dei controlli anti-evasione è andata nel panico.

Prigioniera della propria propaganda elettorale, la destra si è legata le mani da sola, costruendo una riforma che per come si configura renderà ancor più iniquo e inefficiente il nostro sistema fiscale e aggraverà la stagnazione dell’economia italiana. Definire un progetto di segno nettamente diverso è un pezzo decisivo per dare corpo ad una coalizione alternativa alla destra. Partendo da un presupposto culturale: le tasse non sono bellissime, ma non sono neanche il male assoluto. Pragmaticamente, sono essenziali. Per finanziare i servizi pubblici. Per favorire lo sviluppo. Per ridurre le disuguaglianze. Per pagare il debito pubblico. Il punto chiave è come organizzarle secondo equità e efficienza. La montagna delle ambizioni della destra in campo fiscale ha partorito un topolino. Spetta ai progressisti delineare un disegno politico coraggioso ma anche pragmatico, e soprattutto funzionale ad un diverso modello di sviluppo del Paese.

Crediti foto: The New York Public Library su Unsplash

  • Antonio Misiani

    Parlamentare della Repubblica dal 2006. Attualmente è responsabile Economia e Finanze, Imprese e Infrastrutture del Partito Democratico nella segreteria nazionale di Elly Schlein. Foto di Di Antmis - Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=82140285