Le elezioni europee e ancor più quelle amministrative, soprattutto nelle città capoluogo, hanno registrato un successo del PD e del centrosinistra. Prenderne atto è doveroso: si consolida la guida di Elly Schlein, si vede che la destra è tutt’altro che imbattibile e compatta, anche se, neanche questo deve essere sottovalutato, alle europee Fratelli d’Italia continua ad essere il primo partito. Fatte queste schematiche considerazioni e salutato un avvio di inversione di tendenza, bisogna passare subito a un confronto che metta al centro i problemi ancora irrisolti nella coalizione progressista. Non è mania di ubbidire a una sollecitazione che vuole spezzare il capello in quattro, ma la valutazione realistica dei limiti presenti nel PD e delle contraddizioni nel centrosinistra, di fronte a una destra che conserva comunque rilevante forza politica e pericolosità nel suo disegno istituzionale, europeo e socioeconomico.
Il primo aspetto riguarda la partecipazione al voto, attorno o sotto il 50% sia nel primo turno che nei ballottaggi. La democrazia, le istituzioni continuano a mostrare una fragilità che non può essere derubricata: interroga prima di tutto la sinistra. Significa che i ceti popolari e il mondo dei lavori sono avvolti da sfiducia, non trovano nelle parole dei progressisti, se arrivano loro, risposta ai loro bisogni, speranze credibili che li coinvolgano. È naturalmente un segno positivo che il voto dei giovani sia andato prevalentemente al PD e alle sinistre, ma resta confinato in percentuali complessive di votanti che non si discostano sensibilmente dalla modesta partecipazione.
Il PD, incamerato il risultato positivo, dovrebbe farne una leva per cambiare e dare solidità e spessore all’inversione di tendenza nei rapporti interni alla coalizione e soprattutto negli equilibri con la destra. Il merito principale del successo è della segretaria: hanno convinto persone più vicine e attente alla politica il suo impegno per il salario minimo, la riforma e non l’abolizione del reddito di cittadinanza, la sanità pubblica, la scuola, i rapporti in parte ricostruiti con il sindacato, parole nuove, seppure ancora timide e insufficienti, sulla pace. È stato complessivamente trascinante verso quei mondi non troppo lontani da noi il mix di candidature, la presenza di personalità come Cecilia Strada e Marco Tarquinio.
Le parole e le politiche nuove non hanno però scalfito, anzi spesso non sono neanche arrivate a toccare in profondità quel mare del non voto, in cui ci sono ceti sociali che la sinistra e i progressisti dovrebbero avere a loro fianco. Per riuscirci è necessaria una continuità di rapporti e un partito, che esista nei territori, in forme nuove e moderne ma reali. Sono indispensabili quadri dirigenti formati alla politica, selezionati nell’esperienza e non inventati all’occasione o promossi per il sostegno ai candidati.
Questa è la sfida, finora non affrontata, che ha di fronte a sé Elly Schlein. Non si può costruire tutto subito, ma ci si può porre politicamente il problema e si può, infine, impostare e promuovere, a partire dal prossimo autunno, una fase costituente programmatica. È nella discussione e anche nello scontro politico, rispettoso ma franco, che si plasmano e rinnovano i partiti, si consolidano le coalizioni, rendendo discriminanti i programmi, non astratte pregiudiziali di schieramento.
Bisogna accantonare in modo definitivo la pretesa di autosufficienza, che ha isolato il PD e cancellare comportamenti politici troppe volte superficiali e arroganti. Una saggia pluralità di candidature ha dato, in questa occasione, un contributo efficace all’esito del voto: non funziona però in eterno. Ha senso e valore se alle spalle c’è un programma, ci sono priorità rese comuni dal confronto. Oggi, ci piaccia o no, il PD è prevalentemente un partito chiuso nelle istituzioni, in cui il peso maggiore nelle scelte e quasi sempre anche nelle successioni dei ruoli, al concludersi dei mandati, è fortemente condizionato da chi era sindaco o presidente di Regione. So bene che in parte è sempre stato così ed è anche giusto: purché lo sia in parte, non in modo determinante e pressoché solo da ratificare.
Senza che il PD si impegni in un progetto programmatico, con al centro libertà, democrazia, giustizia sociale ed ecologica, Europa e pace, senza la volontà di rinnovare sé stesso anche nell’organizzazione e nella selezione dei gruppi dirigenti, vedo lontana la prospettiva di un’alternativa vincente alla destra. E comunque vincere è importante, ma non sufficiente: bisogna poi governare e cambiare la società.
L’Europa è ancora alle prese con la sfida delle destre reazionarie, le elezioni in Francia non hanno un esito scontato, da noi quelle regionali del prossimo anno non saranno, come alcuni ritengono, una scontata ripetizione del voto amministrativo e la coalizione progressista è da realizzare. Un solo esempio, ma di rilievo: l’attacco del terzetto Grillo-Raggi-Di Battista a Giuseppe Conte. I Cinque Stelle sono a un bivio: soggetto politico stabilmente nel centrosinistra oppure movimento populista, né di destra né di sinistra, antistituzionale e antipartito? Il mancato radicamento territoriale risiede non nelle politiche di Conte, Patuanelli o Fico ma in regole incompatibili con l’insediamento nei luoghi e con un clima sociale mutato, che esige riferimenti certi, competenze, collocazioni non saltuarie e improvvisate. Del resto, su un altro fronte dello schieramento potenzialmente alternativo alla destra, la riproposizione di comportamenti politici che riesumano il vecchio equilibrismo alla “Ghino di Tacco” è costato caro ad Azione e Italia Viva, duramente ridimensionate dal voto.
La via per tutti è quella della costruzione di una coalizione progressista alternativa alla destra: non ci sono spazi né per l’autosufficienza né per ambiguità. Il voto europeo e amministrativo rafforza la responsabilità del PD nel realizzarla: per riuscirci abbiamo bisogno di un partito vero e di un programma.
Crediti foto SIG SG 510, CC0, da Wikimedia Commons
Buongiorno.
Sull’ astensionismo, credo sia arrivato il momento di rendere il voto effettivamente obbligatorio, con “premialità” del certificato elettorale in regola con le votazioni (da allegare, ad esempio, a concorsi, bandi, gare, bonus vari, in generale a fronte di tutte le opportunità offerte dallo Stato).
A mio modestissimo modo di vedere, non c’è un minuto da perdere se si vuole consolidare la democrazia; infatti, dopo le consultazioni europee del 2024, il dato dell’ affluenza è sceso pericolosamente sotto la soglia limite del 50%; il rischio reale evidente è che in futuro le consultazioni politiche possano essere, addirittura, contestate.
Naturalmente l’obbligatorietà del voto potrebbe essere collegata a meccanismi di votazione a distanza, non necessariamente digitali, nelle giornate precedenti il giorno delle elezioni, per andare incontro agli elettori fuori sede: ambasciate, sedi consolari, prefetture, altro.
Va da sé che una tale proposta non ha colore politico e dovrebbe essere approvata da tutti i partiti.
La democrazia appartiene a tutti.
Grazie