L’interpretazione ed il portato dell’art. 11 della Costituzione tornano purtroppo di attualità ogniqualvolta scoppino nel mondo conflitti armati rispetto ai quali il nostro Paese è tenuto, volente o nolente, a prendere posizione, almeno come membro di organizzazioni internazionali che non possono o non vogliono restare indifferenti.
Nel nostro ordinamento costituzionale esistono due punti fermi: il primo è il principio pacifista (di cui subito dirò), il secondo è la legittimità delle guerre difensive.
Il principio pacifista trova la sua consacrazione nel noto art. 11. Il ripudio della guerra, solennemente affermato, si accompagna all’impegno della Repubblica affinché vengano assicurate la pace e la giustizia fra le Nazioni.
Il ripudio della guerra è dunque finalizzato al perseguimento ed all’affermazione della pace. Lo sforzo dell’Italia deve essere, sempre e comunque, finalizzato a che cessino le violenze belliciste e possa affermarsi una situazione di pace, cioè la fine del conflitto fra i precedenti belligeranti, con tutto quello che ne consegue.
Affermato questo principio, la Costituzione non delegittima affatto la guerra difensiva. Anzi, le previsioni costituzionali si incaricano di organizzare le procedure e le conseguenze di un’eventuale dichiarazione di guerra. Tale atto disegna un nuovo assetto fra tutti i poteri dello Stato: così, la durata delle camere è prorogata in caso di eventi bellici (art. 60, comma secondo), al Governo possono essere conferiti i necessari poteri per far fronte alla situazione (art. 78), la giurisdizione dei tribunali militari muta rispetto al tempo di pace (art. 103, comma terzo), anche con una possibilità di riduzione delle garanzie giurisdizionali (art. 111, comma settimo). Peraltro, anche in tempo di pace opera continuamente il Consiglio Supremo di Difesa (art. 87, comma nono), sotto la presidenza del Capo dello Stato, cui compete dichiarare lo stato di guerra deliberato dalle Camere, anche nella sua veste di comandante supremo delle forze armate.
Insomma, il fenomeno bellico non è estraneo ed incompatibile con la Costituzione del 1948: nella sua veste difensiva è contemplato – non certo auspicato – anche perché su ogni cittadino grava il dovere, definito sacro, di difendere la patria (art. 52).
Se queste sono le coordinate sul piano interno (divieto per l’Italia di intraprendere una guerra; dovere di difesa), la questione si fa complicata e spinosa allorché gli aggrediti siano altri. Quale può essere, in questi casi, la posizione e l’attività della Repubblica italiana?
Stando nel tracciato dell’art. 11, l’Italia dovrebbe affidarsi all’opera delle organizzazioni internazionali preposte, in particolare delle Nazioni Unite, per ristabilire una situazione non conflittuale. L’amara constatazione, corroborata da decenni di fallimenti, porta a ritenere che il sistema delle Nazioni Unite, nel quale è fatto divieto dell’uso della forza (art. 2 della Carta delle Nazioni Unite), non sia sufficientemente forte e solido per impedire lo scoppio di conflitti e per ristabilire la pace in caso di guerra.
La capacità deterrente del diritto internazionale, affidata ad un Consiglio di sicurezza ad alta disfunzionalità, dominato di veti incrociati, è ridotta così al minimo.
Nel momento in cui uno Stato è illegittimamente aggredito e combatte la sua guerra difensiva, non esiste per l’Italia un divieto assoluto di intervenire in aiuto di questo (cosa che, evidentemente, non potrebbe accadere senza violare l’art. 11 ove si voglia prendere le parti dello Stato aggressore), tanto più se la difesa si impone al nostro Paese in forza di accordi internazionali conclusi ancora in attuazione dell’art. 11 (penso, ovviamente, al Patto Atlantico). In effetti, è proprio tramite questi sistemi di alleanze che si sviluppa una deterrenza nei confronti di eventuali aggressioni esterne.
Dal punto di vista della legalità costituzionale, non ci sono dubbi che l’Italia debba farsi in qualche modo carico di assistere uno Stato alleato aggredito.
Se però l’aggredito non è alleato, si pongono altri problemi. Per quanto possa essere legittima la resistenza e la difesa di questo Stato, il compito della Repubblica italiana – stando agli articoli della Costituzione – è perseguire la pace.
L’obiettivo dell’azione italiana, allora, deve essere volto non a sostenere una guerra, quand’anche difensiva, legittima o addirittura “giusta”, ma a raggiungere la cessazione delle ostilità.
Si tratta di un obiettivo che va perseguito coinvolgendo la comunità internazionale, la quale deve farsi carico delle ragioni del conflitto: in gioco non devono più esserci la “ragione” ed il “torto”, la legittimità o meno della guerra, ma la composizione degli interessi in gioco e l’avvicinamento fra le parti.
A prescindere dalle condizioni della tregua, esiste una convenienza in sé nel perseguire la pace che deve fare premio su considerazioni di tipo diverso e che, eventualmente, potranno trovare spazio e valutazione in un secondo momento.
Alla luce di queste riflessioni, mi pare di poter dire che il sostegno a tutti i costi a Stati aggrediti (come nel caso dell’Ucraina) non è in nome della pace, dunque non è in nome del principio pacifista di cui all’art. 11 che, semmai, chiede uno sforzo perché cessino, a tutti i costi, i combattimenti e le perdite di vite umane.
La valutazione richiesta ai poteri della Repubblica affinché orientino la loro azione sul piano internazionale non è sulla natura “giusta” o “ingiusta” di una guerra o sui valori in gioco, che si rivelano spesso mutevoli e cangianti, soprattutto allorché si invochi la difesa di “modelli” di democrazia, non si sa quanto fatti propri dai popoli in conflitto, sia quando essi subiscano la violenza di altri, sia quando questi muovano violentemente contro altri (si pensi alle operazioni di Israele nel territorio palestinese della striscia di Gaza). L’unica valutazione da compiere è come raggiungere la pace e quali strumenti adoperare perché essa arrivi nel minore tempo possibile.