Il gruppo Angelucci, proprietario di numerose cliniche ed editore di alcuni quotidiani di destra (“Il Giornale”, “Libero” e “Il Tempo”), vorrebbe acquisire l’AGI, l’agenzia di stampa dell’Eni. E l’Eni ha preso in considerazione questa manifestazione di interesse. L’editoria, spiega, non è mestier suo.

La notizia ha suscitato forti polemiche dal centro e dalla sinistra dello schieramento politico, oltre alla resistenza dei redattori. Senza entrare troppo nel merito della vicenda, mi pare interessante ragionarne in termini di sistema. Infatti, se il peso dell’AGI nell’industria dell’informazione italiana non è rilevante, lo sono invece gli argomenti messi in campo nella circostanza.

In parole povere, i critici vorrebbero che l’Eni non vendesse l’AGI. Non importa se da molti anni l’agenzia non serve più all’editore e perde parecchio. L’Eni, osservano, può ben sopportare queste perdite dall’alto degli utili fatti con il gas, il petrolio e le altre attività. Perché? Perché, a loro dire, l’Eni ha garantito e garantisce l’indipendenza dell’agenzia. E l’indipendenza dell’informazione è un pilastro della democrazia. Ecco, è da questo argomento che si può cominciare (tristemente) a ragionare.

L’Eni è un’azienda industriale controllata di fatto dal governo. Pertanto, il suo legame con l’AGI patisce non uno, ma due conflitti di interesse. Il primo, in quanto l’agenzia non può certo pubblicare notizie e/o approfondimenti che danneggino il core business dell’editore. Il secondo, in quanto gli assetti azionari dell’editore precludono all’agenzia la libertà di dare notizie sgradite al governo, di qualunque colore esso sia. L’Eni, insomma, è un editore impuro. Come Exor, che possiede “Repubblica” e la “Stampa”, tanto per capirci.

I cavalieri della libera informazione, insomma, dovrebbero salutare come un “meglio tardi che mai” il fatto che l’Eni possa cedere l’agenzia. E fare le barricate contro il signor Elkann. E invece…

Certo, il negoziato con Angelucci può essere materia di discussione. Magari non perché gli Angelucci violino i limiti antitrust nell’editoria quotidiana (ne sono lontanissimi), ma per la loro forte caratterizzazione partitica e, a voler fare i puristi, per i loro conflitti di interesse. Resta il fatto, però, che gli Angelucci sembrano essere gli unici a pensare all’AGI. Altri l’hanno guardata e sono fuggiti. Trent’anni o quarant’anni fa, i giornalisti formavano cooperative per rilevare, con alterne fortune, le testate in grave crisi. Ma erano tempi nei quali la prospettiva del sacrificio salariale non faceva troppa paura e l’ideale del pluralismo informativo scaldava qualche cuore. Oggi non è più così. E allora la mancanza di alternative reali agli Angelucci ci riporta al punto di partenza: l’Eni non dovrebbe vendere. Punto. Come se fosse deputata a svolgere un servizio pubblico.

L’AGI viene dunque percepita come una piccola RAI: un minuscolo centro di potere (e stiamo già esagerando) a disposizione del mondo politico volta a volta vincente, non importa se a carico di un’azienda quotata. Male? Malissimo. E tuttavia, sul piano sistemico, non funziona nemmeno la soluzione dell’editore puro, scevro da conflitti di interesse economici o politici. E questo è il punto drammatico.

I riformisti da sempre considerano l’editore puro il soggetto proprietario che meglio tutela l’indipendenza e il pluralismo dell’informazione. Nel corso del Novecento, gli editori puri non sono sempre stati i sacerdoti della verità e i suggeritori lungimiranti del principe. Il grande “Corriere” di Luigi Albertini spingeva per la liberalizzazione dei mercati, ma anche per le tragiche offensive dell’Isonzo. Il “Corriere” di Franco Di Bella, peraltro cronista straordinario, fermava la svolta modernizzatrice di Piero Ottone. In entrambi i casi, gli editori erano puri, le vendite eccellenti, la linea politica assai più variabile. Nel primo caso, il direttore faceva parte dell’elite nazionale. Nel secondo, era stato scelto da un editore subordinato a una loggia massonica P2. Questo per dire che la purezza formale non è tutto né sul piano politico né su quello economico. Va comunque ricordato che, in un contesto generale favorevole, l’editoria pura ha potuto esprimere testate di successo come “L’Espresso”, “Panorama” e “Repubblica” a sinistra, e “il Giornale” montanelliano a destra. I soci sostenitori (De Benedetti e, per un lungo periodo, Berlusconi) si accontentavano del sedile posteriore. Ma adesso il contesto è cambiato. La crisi dei mass media tradizionali erode i ricavi e, con essi, i margini di libertà. Per tutti, puri e impuri. I newsmagazine, bastioni del pluralismo dagli Cinquanta del Novecento agli anni zero del Duemila, sono scomparsi. I quotidiani chiudono i conti in rosso, tranne il “Corriere della Sera” che comunque non naviga nell’oro. La tv generalista boccheggia, ma la Rai è … la Rai, le reti Mediaset faticano a liberarsi dell’eredità strutturale del loro fondatore e La7 riesce a stento a mettere assieme il pranzo con la cena.

La pubblicità, pur assai meno redditizia del passato, assume una nuova, assoluta rilevanza nei bilanci. E la prima, lampante conseguenza è la scomparsa dell’informazione indipendente e approfondita sui protagonisti dell’industria e della finanza. Ove si consideri la centralità dell’economia nella vita contemporanea è una diminutio allarmante. Ma come si fa a disturbare i manovratori se da loro dipende la sopravvivenza dell’impresa? Quando la situazione è così catastrofica accettare i compromessi diventa per molti un’assunzione di responsabilità. Urbano Cairo è un editore puro (e capace). La7 può irritare il premier, ma poi il “Corriere” rimedia. E nemmeno il gruppo Cairo fa davvero le pulci alle attività economiche degli investitori pubblicitari.

Anche testate come “Il Fatto Quotidiano” e “La Verità”, di opposte preferenze politico-culturali ma con assetti proprietari sostanzialmente puri, sembrano vicine a un redde rationem. E comunque sono testate di nicchia.

Se dunque non esiste un nesso fatale tra la purezza dell’editore e il successo economico nell’industria dell’informazione tradizionale, torna d’attualità l’approccio alle vicende editoriali domestiche secondo la vecchia logica Rai: brutale, cinica, spartitoria, senza alcun respiro di lungo termine. L’interesse generale ridotto a foglia di fico. D’altra parte, se dai mass media tradizionali si passa alle piattaforme digitali, scopriremo che i nuovi veri editori globali sono i leader di Google, Facebook, Instagram, Tik Tok e così via. Essi costituiscono il vertice della nuova industria dell’informazione, ricchissima, monopolistica, manipolatoria e irresponsabile. Un’industria editoriale – ed è qui la beffa – pura, anzi purissima perché non esistono altre attività a essa sovraordinate. Ci vorrebbe un pensiero all’altezza della nuova sfida. Ma, grazie agli editti di Bill Clinton, i vari Zuckerbger & Co. non sono nemmeno classificabili come editori…

(Foto di Ludovica Dri su Unsplash)

  • Massimo Mucchetti

    Giornalista, è stato senatore della Repubblica nella XVII legislatura dal 2013 al 2018 con il ruolo di Presidente della Commissione Industria. Dal 2018 è tornato a dedicarsi a tempo pieno all’attività giornalistica.