Se vogliamo prendere una data di riferimento per valutare le politiche pubbliche dei governi, comprese quelle sociali e per il lavoro, questa è certamente il Covid. Si è giustamente consolidata negli esperti, ma anche nella opinione pubblica, l’idea che la pandemia avrebbe dovuto costituire uno spartiacque tra le politiche adottate prima dell’evento e quelle successive. Nel senso di affrontare quel dramma globale come occasione di cambiamento. Non sempre questo è avvenuto. Eppure, questo spartiacque è esplicito nella scelta economica più importante che il Covid ha ispirato: il programma Next generation EU; che rappresenta un modo nuovo per l’Europa di concepire la politica economico sociale. Sono tre le principali caratteristiche del NGEU. La prima è la istituzione di un debito comune tra gli Stati membri. Si è parlato molto di debito buono, debito cattivo; qui si aggiunge la novità del debito comune. Cioè contratto insieme. E, si sa, che i debiti condivisi fanno, sì, litigare, ma tengono uniti i contraenti, tanto più se tutti i componenti la comunità sono già altamente indebitati per conto loro… La seconda caratteristica è la finalità: finanziare due grandi obiettivi di trasformazione della società: la transizione digitale e la transizione ambientale. Una novità che sfocia addirittura in un ripensamento del “modello” di sviluppo. Infine, l’ingente quantità di risorse messe a disposizione degli Stati membri (e sappiamo che l’Italia ne ha beneficiato più degli altri) per sostenere questa “rivoluzione”. Un volume di risorse ben superiore al piano Marshall.

Questa premessa serve a stabilire l’ambito della discussione sulle politiche pubbliche, comprese quelle sul lavoro. E, cioè, interrogarsi se le decisioni che stanno prendendo i governi europei, e, nello specifico, il nostro governo, sono coerenti con le finalità condivise del NGEU. Il concetto stesso di transizione, tanto più finalizzata (digitale ed ambientale), implica la necessità di affrontare, nelle politiche del lavoro, tre ambiti finora troppo trascurati: la formazione (generale e professionale); la produttività; la crescita salariale e retributiva.

Ovviamente, mettiamo subito in chiaro che queste carenze strategiche e programmatiche non sono nate con l’avvento del governo Meloni e ci sono, senza eccezioni, precedenti e diffuse responsabilità. Ma, ora, tocca alla destra governare ed essere valutata sulle politiche che adotta per migliorare o cambiare una situazione del tutto insoddisfacente. Anche se, con la stessa chiarezza, è doveroso aspettarsi che l’opposizione faccia la sua parte; magari rifuggendo dall’approccio uguale e contrario di quello messo in atto dalla maggioranza: una sorta di demonizzazione politica del passato, fino a non distinguere l’acqua sporca dal bambino…

Lo scenario non è dei migliori. Il gap scuola-lavoro rimane elevato e la abolizione dell’Anpal, effettuata dal governo Meloni, più per obbligo elettorale di smontare le politiche precedenti, che per strategia alternativa, non è, infatti, accompagnata da soluzioni strutturali. L’Anpal era nata col governo Renzi, in attesa di diventare il gestore di tutte le politiche del lavoro decentrate, in una prospettiva coerente con le politiche attive del lavoro presenti in buona parte dell’Europa. Ma, questa riforma, fu stoppata dalla sconfitta del Referendum costituzionale. Il seguito è stato un susseguirsi di faticosi ed inefficaci tentativi di conciliare reddito di cittadinanza e avviamento al lavoro. Con la semplicistica soluzione, adottata dal governo in carica, di abolire il reddito di cittadinanza, senza una vera alternativa.

Nel rapporto della Commissione Europea su “occupazione, competenze professionali e inclusione sociale” viene espresso un giudizio nettamente critico su questa scelta del governo italiano. In particolare, si rileva che rispetto allo schema precedente del reddito di cittadinanza, che, come ben sappiamo, non era esente da critiche, il nuovo “assegno di inclusione” peggiorerà la situazione incrementando dello 0,8% la povertà. E questo perché si restringono i criteri di accesso, in quanto non viene valutato il reddito dei soggetti, ma solo le persone con oltre i 60 anni o con disabilità. Questa stretta non è compensata dal cumulo con l’assegno unico universale.  A maggior ragione in un Paese, come l’Italia, nel quale oltre 4 milioni di lavoratori hanno un contratto a tempo indeterminato e altrettanti una retribuzione sotto i 9 euro.  Secondo l’OCSE il nostro indice di Gini (l’indicatore che misura la disuguaglianza) con un coefficiente di 0,325 è più alto, ovvero denuncia più disuguaglianze, di Francia (0,292) e Germania (0,296). 

Peraltro, i dati sulla produttività confermano che l’Italia, nel periodo 2014/2022, con un modesto incremento dello 0,5%, resta lontana dalla media europea dell’1,3%, dalla Germania (1,3%) e dalla Francia (1%). Questo dato si intreccia con quelli del mercato del lavoro: meno 8,5% rispetto alla media Eu; meno 12,7 per l’occupazione femminile. Se consideriamo gli squilibri interni al Paese tra centro (66,1%), nord (69,8%) e Sud (48,6%), il quadro si fa davvero desolante. Dentro questi dati ci sono due preoccupazioni specifiche. La precarietà dei   rapporti di lavoro: dei nuovi contratti di lavoro attivati solo il 17,2 è a tempo indeterminato; mentre l’83% è temporaneo e il 34% non dura più di 30 giorni. L’altro è la inattività, che riguarda almeno 2 milioni di giovani, infine, il gap salariale. Basta il dato di Eurostat, riferito al 2108; la retribuzione oraria mediana in Italia era di 12,6 euro; in Danimarca 27,2; in Svezia 18,2. Ma, limitiamoci ai due principali concorrenti: la Germania 17,2; la Francia 15.3 euro.  Eppure, il governo Meloni si è opposto al salario minimo, che, se non risolve lo squilibrio generale, argina il deflusso verso il basso.

Ecco perché la grande opportunità che ci viene dal PNRR, da cui siamo partiti, ci interroga direttamente. Non è pensabile, infatti, che le opere finanziate dal PPNR, fondamentali per lo sviluppo, risolvano di per sé la qualità della crescita e la competitività dell’Italia, senza risolvere il gap sull’insieme delle politiche del lavoro e del welfare.

Ma, è altrettanto chiaro che per rispondere a questi snodi dobbiamo prima affrontare i “fondamentali”; ovvero, quale politica industriale; quale politica dei redditi; quale politica di welfare. È questo il dibattito attuale sulle politiche del lavoro? Sono queste le priorità con le quali il Governo affronta la questione lavoro in Italia? E’ questo il livello del confronto? Non pare proprio.

Cosa significa per l’Italia realizzare la transizione digitale ed ambientale? Innanzi tutto, scegliere verso quali settori o ambiti di sviluppo orientarsi, dai quali far discendere le scelte occupazionali e della qualità del lavoro. Individuiamone tre per esemplificare il ragionamento che sto facendo. Siamo il secondo paese manifatturiero d’Europa e il quinto a livello globale (ottavi per Pil); il primo Paese al mondo per beni artistici e monumentali, oltre che il… giardino d’Europa. Siamo, per la nostra originale configurazione geografica, la principale piattaforma naturale protesa a nord verso il centro e l’Est Europa; a sud nel Mediterraneo, luogo di traffici di merci e, ahimè, di uomini. Quindi: “Made in Italy”, agroalimentare, moda, nautica, metallurgia, cultura (non ci manca la tradizione!), turismo, logistica… sono tutte filiere produttive decisive per l’economia italiana; ma che necessitano di una nuova stagione di innovazione tecnologica e di qualificazione del personale.

Torniamo, così, da dove siamo partiti: più formazione, più produttività, più retribuzioni!

La competitività italiana non si fa sulla compressione delle retribuzioni, ma sulla qualità dell’offerta. Come abbiamo detto prima, i salari italiani sono inadeguatamente bassi rispetto al livello di competitività necessario al Paese (tra il 1990 e il 2020 i salari sono scesi di quasi 3 punti percentuale; la inflazione ha sommato, invece, ben 15 punti). Questa, assieme al precariato, è la principale ragione che induce i giovani a espatriare. Se questo scenario chiama in causa gli imprenditori e i sindacati ancora troppo ancorati a visioni e pratiche… pre covid, è, senza dubbio, a dir poco, miope una politica governativa che persegue scelte alternative ad una vera politica dei redditi. Il governo, infatti, insiste sull’Autonomia differenziata, ovvero l’affidamento alle regioni di queste materie, accentuando le differenze territoriali. O sceglie la flat tax; più a parole che nella realtà, perché il costo è troppo elevato per un bilancio pubblico gravato da un debito così pesante che ha indotto il governo, nella scorsa legge di bilancio, a finanziare in deficit (15 miliardi) e a tempo (per solo un anno) le politiche fiscali a favore dei lavoratori. E non si capisce proprio come potrà confermarle per il 2025! In ogni caso, la flat tax (pura o incrementale) è una scelta che premia i redditi alti e non risponde alle gravi disuguaglianze sociali. Disuguaglianze aggravate dai tagli alla sanità, il che costringerà ad un peggioramento delle condizioni di assistenza pubblica (allungamento delle già lunghe liste di attesa nella diagnostica e nelle prestazioni), col conseguente maggior ricorso al costoso servizio privato.

Tutto ciò va in tutt’altra direzione rispetto alla esigenza inderogabile e urgente di una politica di crescita economica e di sicurezza e qualità del lavoro.

Crediti Foto di rivage su Unsplash

  • Pier Paolo Baretta

    Nato a Venezia, formato nell’associazionismo cattolico veneziano. Dopo il diploma ha lavorato in un’industria di Porto Marghera e si è iscritto, come studente lavoratore, all’Università. Successivamente, è entrato nel sindacato ricoprendo incarichi sia in Veneto che a Roma, fino a diventare Segretario Generale Aggiunto della Cisl confederale. Dal 16 settembre 2019 al 13 febbraio 2021è stato sottosegretario di Stato al Ministero dell'economia e delle finanze nel governo Conte II, incarico già ricoperto nei governi Letta, Renzi e Gentiloni.