Come non condividere un senso di avvilimento per il degrado del confronto e del linguaggio politico del quale hanno offerto un saggio imbarazzante due campioni nel ramo, Meloni e De Luca? Una gara nella quale è difficile stabilire a chi spetti la palma del primato. Del resto, abbiamo imparato a conoscere l’eleganza di entrambi. Dunque, mestizia, disappunto, ma non sorpresa. E tuttavia – lo confesso – giudico decisamente più censurabili le grevi espressioni riservate dalla premier ai vescovi italiani e al loro presidente, il cardinale Zuppi, che, sulle riforme costituzionali, aveva manifestato una preoccupazione affidata a parole più che misurate: si deve fare attenzione – ha notato – quando si mette mano ai delicati equilibri costituzionali. Come ha reagito Meloni? Cito: “ora mi sono stufata …. non so cosa esattamente preoccupi la Cei, visto che la riforma del premierato non interviene nei rapporti tra Stato e Chiesa. Con tutto il rispetto, non mi sembra che lo Stato vaticano sia una Repubblica parlamentare, nessuno ha mai detto che si preoccupava per questo e quindi facciamo che nessuno si preoccupa”. Dunque, tacciano. Parole che rasentano la maleducazione. Giorgia sarà pure cristiana oltre che donna e madre. Ma una cristiana dovrebbe portare un qualche rispetto alla Chiesa e ai suoi pastori. E’ difficile supporre che la sua ignoranza o il suo pregiudizio in materia si spingano al limite di sostenere: a) che la Chiesa abbia cura solo “corporativamente” dei suoi interessi nel rapporto con lo Stato e non anche e soprattutto alla vita delle persone, credenti e non credenti, e della comunità tutta; b) che essa, per natura (sacramentale) e per struttura, possa rispondere ai canoni della democrazia parlamentare, avendo un assetto gerarchico voluto dal suo Fondatore.
Possiamo avanzare tre chiavi di lettura di un fallo di reazione tanto sopra le righe. La prima: per lunghi anni – diciamo nel ventennio della Chiesa italiana dominato dalla regia politico-pastorale del cardinale Ruini – le destre nostrane sono state abituate ad attendersi un sostegno più o meno esplicito da quel versante e non già un più equanime discernimento e una severa vigilanza critico-profetica circa l’azione di partiti, parlamento e governo. In nome del noto paradigma dei cosiddetti “principi non negoziabili” piegati a fine politico. La seconda: pur senza spingersi all’estremo leghista di uno sfrontato uso politico dei simboli religiosi e segnatamente di quelli cristiani, anche altri settori della destra non hanno lesinato riferimenti alle radici e alla tradizione cristiana quale malintesa “religione civile” della nazione. Si pensi a coloro che Nino Andreatta bollò come “atei devoti”, cultori di un cristianesimo senza Cristo. Diciamolo francamente: salvo qualche rara eccezione non abbiamo mai avuto l’impressione che a destra albergasse un vivace fervore religioso. Intendiamoci: come anche a sinistra, ove almeno non si eccede nell’ipocrisia e semmai, talvolta, apprezzabilmente, si ingaggiano serrati confronti critici. Ma vi è una terza, più banale lettura della infelice uscita della premier. Banale, ma politicamente eloquente. Ovvero che le sue parole siano semplicemente espressione di protervia e di arroganza. Da associare ai tanti, troppi segnali di fastidio per le voci di dissenso. Anche, come in questo caso, le più autorevoli e garbate. Può darsi, come osserva qualcuno, che reazioni così scomposte testimonino non già forza ma nervosismo e incertezza. Resta tuttavia l’impressione che si ricava da questo episodio: non si deve disturbare il manovratore il quale, anche attraverso le menzionate riforme, mira a imprimere una torsione bonapartista alla nostra democrazia. L’opposto di una democrazia pluralista e partecipativa, di una visione della società e dello Stato che attinge alla linfa vitale delle sue formazioni sociali, tra le quali, con le sue peculiarità, va annoverata la stessa Chiesa. Trattasi di quel principio di sussidiarietà – ispirata a un doppio primato: della persona sulla società e della società sullo Stato – così preziosa quanto talvolta equivocata.
La Chiesa italiana, ai primi di luglio a Trieste, nella sua “settimana sociale”, si interrogherà esattamente sullo stato di salute della democrazia. E’ da sperare che essa non si faccia intimidire; che non si esorcizzino le sfide attuali; che non ci si limiti a discorsi edificanti; insomma che da quel consesso possano sortire parole chiare e coraggiose sul malessere e sulle insidie alla democrazia. Sarebbe semmai sorprendente che, nell’attuale congiuntura critica, fosse eluso il problema di come preservare il patrimonio di valori (e di regole) incorporate da una Costituzione cui i cattolici diedero un contributo decisivo e qualificante. Magari rispondendo alla seguente domanda: sono questi un tempo e una classe dirigente all’altezza di riscrivere buona parte della Costituzione?
(Foto: www. chiesacattolica.it)