Il 23 maggio scorso si è tenuto in Eurovision il dibattito tra i candidati alla presidenza della commissione europea, presentati dai singoli gruppi parlamentari. Un evento che non ha suscitato alcun interesse né reazione nella stampa nazionale. Non si è parlato né dell’evento in sé e per sé (della sua preparazione o della presentazione dei candidati) né di quanto ciascuno di essi ha affermato e proposto per il futuro dell’Europa. Al contrario, si è invece molto discusso della preparazione e della gestione (in quale luogo e con quali personalità) del confronto televisivo tra le leader dei due principali partiti italiani – Giorgia Meloni ed Elly Schlein – e, successivamente, delle ragioni di coloro che ne hanno contestato la legittimità. Si è discusso, insomma, ampiamente di un incontro mai avvenuto ed è stato completamente ignorato un evento reale, programmato e presentato in tutti i canali di informazione in dotazione all’UE.

Un paradosso solo apparente che ha, invece, ovvie ragioni, peraltro radicate nel tempo: il tradizionale primato dell’interesse nazionale nella competizione elettorale europea (un fenomeno tutt’altro che circoscrivibile al caso italiano) e la pressoché totale assenza di una adeguata comunicazione sulle questioni europee nei principali canali di informazione italiani.

Il vero paradosso sembra invece essere un altro. La crescente politicizzazione dell’Europa – cioè, il suo progressivo divenire oggetto di dibattito pubblico da parte dei partiti e dei gruppi politici – non ha comportato una proporzionale crescita dell’informazione e della conoscenza tra i cittadini dei complessi meccanismi europei e dei suoi ampi ambiti di competenza. In sintesi, si riconosce il peso dell’influenza delle scelte dell’UE sulla vita quotidiana dei cittadini ma non si ha comprensione dei meccanismi che regolano le istituzioni ed i processi decisionali, né si ha contezza del merito delle policies di volta in volta adottate. Negli ultimi anni abbiamo assistito alla nascita di partiti e movimenti eurospecifici, euroscettici e/o euro-ostili, che hanno costruito il proprio consenso su informazioni spesso parziali, precarie e distorte relative all’Unione. Come sottolineato da molti politologi, si è passati dal “consenso permissivo” che ha a lungo caratterizzato l’atteggiamento delle popolazioni coinvolte nel processo di integrazione ad un “dissenso disinformato” che ne mette in discussione non solo i futuri sviluppi ma le acquisizioni avvenute nel corso del tempo.

L’attuale campagna elettorale per il rinnovo del parlamento europeo non fa eccezione, naturalmente, a questo quadro. In un sondaggio Eurobarometro del 2007 circa il 73% degli intervistati si dichiarava male informato sulle attività, le funzioni, la composizione del PE. Oggi, a pochi giorni di distanza dal voto, in pochissimi conoscono il numero e i nomi degli attuali candidati al ruolo di presidente di commissione.

L’unica candidata di cui si discute con una certa frequenza è l’attuale presidente Ursula von der Leyen, alla ricerca delle condizioni (difficilissime) per una sua rielezione. Aver vinto la propria battaglia interna al PPE (e dentro il suo partito, la CDU) è già un successo non banale ma la strada da percorrere appare piuttosto complicata. La strategia tentata dalla candidata popolare è, com’è noto, di costruire un’alleanza di centrodestra tra il PPE e il gruppo dei conservatori e riformisti (ECR). Una prospettiva che presenta però diversi problemi.

Innanzitutto per le dinamiche, piuttosto interessanti, che coinvolgono le due formazioni di estrema destra del parlamento europeo: ECR e Identità e democrazia (ID). Si sta assistendo in questo momento ad esercizi di scomposizione e ricomposizione dei due gruppi che potrebbero riservare diverse novità. In particolare, dentro i conservatori, il partito polacco Diritto e giustizia (PIS) guidato da Morawiecki sta operando piuttosto visibilmente per una convergenza politica con parte del gruppo di ID. Una prospettiva in qualche modo rafforzata dall’uscita (e il conseguente isolamento) dei tedeschi di Afd, dopo le polemiche innescate dall’intervista rilasciata dal suo leader Maximilian Krah. Lo stesso leader polacco sta premendo per portare nel gruppo dei conservatori Fidesz, il partito della destra ungherese guidato da Orban.

L’ipotesi di una “fusione” porterebbe ad effetti destabilizzanti il panorama politico europeo, con il nuovo gruppo di estrema destra che potrebbe risultare il secondo per numero dopo i popolari, scavalcando i Socialisti e democratici (S&D). I sondaggi (Euronews, Politico) sembrano indicare una crescita di ECR e ID tale da competere apertamente con S&D: le ultime proiezioni di Euronews del 3 giugno (che pure sono al ribasso rispetto alle intenzioni di voto registrate a gennaio) prospettano un totale di 144 seggi dei primi contro i 135 del secondo. Questa ipotesi si scontra però con l’aperta concorrenza esistente tra partiti nazionali (a titolo esemplificativo, FdI e Lega in Italia, Rassemblement National e Reconquête in Francia) che si troverebbero a dover gestire una non semplice convivenza. Ancor di più, questa opzione toglierebbe spazio ed agio alla strategia di Giorgia Meloni – che si presenta chiaramente come una leadership alternativa a quella dell’ex premier polacco – interessata a giocare un ruolo cruciale di mediazione con il PPE.

In questa direzione, rilevanti sono anche le strategie dei popolari, interessati ad acquisire nuovi membri dalla destra dello scacchiere politico per ampliare la consistenza del proprio gruppo. I tentativi, per ora solo esplorativi, compiuti con FdI ne sono una evidente spia. Operazione, comunque, ad altissima complessità, non solo perché solleverebbe un caso nazionale di convivenza tra Forza Italia e FdI ma perché presupporrebbe uno spostamento verso il centro – nella prassi ma anche nella cultura politica – del partito guidato da Meloni, che lascerebbe così terreno ai partiti (come la Lega) competitivi sulla destra. Senza considerare che ciò comporterebbe la rinuncia alla leadership di ECR, proprio in un momento di forte ascesa.

Quale che possa essere la soluzione che le destre europee proveranno ad avviare, la strada del reincarico di von der Leyen non appare per nulla semplice. Le ripetute radicali critiche rivolte alla sua commissione (per le politiche avviate su molti dossier e per la coalizione stessa che l’ha sostenuta) da molti dei partiti presenti nei gruppi ECR e ID rendono l’ipotesi di un’alleanza di centrodestra in suo nome piuttosto complicata. Gli scenari rimangono però molto aperti ed aiuta in questo senso la decisione di entrambi i gruppi di non presentare proprie candidature alla presidenza della commissione. Come ha recentemente spiegato il deputato europeo di FdI e copresidente di ECR, Nicola Procaccini, la mancata candidatura nasce dal rifiuto stesso del sistema degli Spitzenkandidat e dalla convinzione che il potere di nomina spetti ai soli governi nazionali. Una posizione che rappresenterebbe un enorme passo indietro rispetto alla prassi ormai consolidata nei rapporti PE/commissione. 

Dei sette gruppi del parlamento, i candidati che si sono confrontati nell’evento del 23 maggio sono, dunque, cinque: oltre alla candidata del PPE, il lussemburghese Nicholas Schmit per i socialisti, l’italiano Sandro Gozi per i liberali (Renew Europe), la tedesca Terry Reintke per i verdi, il comunista austriaco Walter Baier per la sinistra. Sono tutti candidati di bandiera che difficilmente potrebbero rientrare in gioco, dopo le elezioni, in caso di scenari di alleanze di compromesso.

Nel complicato panorama politico italiano, questa linea di sviluppo non viene, tuttavia, seguita. Il dibattito nella maggioranza di governo è sostanzialmente dettato dalla convivenza competitiva di FdI e Lega che attingono allo stesso bacino di consensi e dagli smarcamenti di Forza Italia dai ripetuti atteggiamenti antieuropeistici dei suoi partner. Nel centrosinistra le posizioni su molti dossier (a cominciare dalla guerra russo-ucraina) sono piuttosto diverse, non solo tra partiti come PD e Movimento 5 stelle ma anche dentro lo stesso partito (l’esempio della candidatura di Tarquinio nel PD ne è una chiara esemplificazione). Gli altri gruppi – Sinistra italiana e verdi, i partiti moderati di Renzi e di Calenda come anche i radicali – devono ragionare innanzitutto sulle proprie condizioni di esistenza e provare a superare la soglia di sbarramento del 4% prevista dalla legge elettorale. Gli ultimi sondaggi Ipsos sembrano indicare un successo in questo senso, sia per l’Alleanza verdi sinistra (frutto di un’attenta composizione delle liste elettorali su temi ritenuti sensibili) che per il gruppo moderato (l’asse è costruito sull’alleanza di scopo tra +Europa e Italia Viva) riunitosi sotto l’egida degli Stati Uniti d’Europa. A rischio è invece la riuscita di Azione. Molto dipenderà, naturalmente, dall’affluenza alle urne.

Il previsto indebolimento del gruppo di Renew Europe, dove confluiscono questi ultimi partiti, è probabilmente un altro segnale degli smottamenti del panorama europeo, in cui la crescita dei partiti di centro-destra e di estrema destra sembra un dato piuttosto diffuso in molti paesi cruciali della storia europea: dalla Francia, dove ci si aspetta un successo significativo di Marine Le Pen, alla Spagna, che vede in forte crescita il consenso al partito popolare (minore, invece, il sostegno previsto per Vox), passando per l’Italia e per la Grecia (gli ultimi sondaggi danno un notevole vantaggio ai conservatori di Nuova democrazia). Se si aggiunge che alcuni osservatori vedono in crescita l’ipotesi di formazione di un gruppo populista di estrema sinistra, trascinato dal nuovo partito tedesco BSW guidato dall’ex deputata di Die Linke Sahra Wagenknecht, l’orizzonte postelettorale appare in una prospettiva ancora più incerta e instabile.

(Foto di Guillaume Périgois su Unsplash)

  • Paolo Acanfora

    Professore di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e responsabile dell'Ufficio Italiano dell'ECPD (Centro Europeo per la Pace e lo Sviluppo).