La battaglia sulla questione dell’autonomia differenziata vede l’esistenza di una dialettica anche nella destra politica e intellettuale italiana (per quanto non molto valorizzata nell’universo mediatico). Ne è testimone l’articolo che volentieri pubblichiamo, che viene da una voce autorevole, lontana dalla nostra sensibilità, sicuramente capace di arricchire il dibattito in corso, con motivazioni degne di considerazione (Ndr).

Si può stabilire un nesso tra la mobilitazione del Pd ordinata da Elly Schlein in vista del 2 giugno e il ddl Calderoli che introduce l’autonomia differenziata? Certamente sì: se infatti l’iniziativa della segretaria dem non ha precedenti in Italia e ancor meno ne avrebbe in Usa o in Francia dove le rispettive ricorrenze nazionali del 4 e del 14 luglio mai vedrebbero concomitanti controcelebrazioni ad opera di un partito politico, è altrettanto vero che il citato disegno di legge è un ordigno a tempo piazzato sotto le fondamenta della Repubblica. Morale: se l’iniziativa della Schlein mette a nudo la nostra sconcertante fragilità come nazione, l’autonomia differenziata ci disintegra come Stato. Nessuna esagerazione. È questione di giorni, al più di settimane, ma il finale è già scritto: una volta approvata l’autonomia differenziata (o rafforzata), l’Italia così come fondata nel 1861 evaporerà per lasciar posto ad una carnevalesca Repubblica di Arlecchino agghindata in venti staterelli dove ogni pezza colorata rappresenterà una regione con leggi e regolamenti fatti in casa. Saremo governati da decisioni a chilometro zero ma, diversamente che in agricoltura, a guadagnarci non sarà la genuinità del prodotto ma solo la brama di potere dei vari governatori o cacicchi che dir si voglia. Di certo, a rimetterci sarà l’uguaglianza dei cittadini nel godimento dei diritti. I sostenitori del ddl Calderoli si difendono argomentando che l’Italia è disunita già oggi in assenza dell’autonomia differenziata. In più azzardano che sarà proprio tale riforma a rimettere le cose a posto realizzando condizioni (leggi Lep, acronimo che sta per Livelli essenziali delle prestazioni) di effettiva pari opportunità per tutti gli italiani dalle Alpi a Pantelleria. Non spiegano, tuttavia, come possa garantire eguaglianza tra cittadini una riforma il cui scopo manifesto è, appunto, quello di differenziare l’autonomia decisionale fra territori. È infatti di tutta evidenza che le regioni con maggiore capacità di spesa pagheranno meglio, ad esempio, medici, infermieri e insegnanti mentre quelle che non potranno permetterselo, questi stessi lavoratori li vedranno emigrare. Non si scappa. Sempre che settori della maggioranza non coltivino il retropensiero di utilizzare la preventiva determinazione dei Lep con la stessa astuzia con cui Bertoldo chiese ed ottenne di poter scegliere l’albero cui essere impiccato. Ma sarebbe un trucco da bontemponi, non una soluzione da governanti. In ogni caso, esistono nove materie, cui sono connesse ben 184 funzioni, che non abbisognano di Lep per essere devolute dallo Stato alle regioni. Il dado è tratto, insomma. E a poco vale anche lo scaricabarile in corso sulle responsabilità, passate e presenti, con la sinistra che accusa la destra di voler disintegrare lo Stato e con questa che replica rinfacciando alla prima la riforma del Titolo V del 2001, senza la quale oggi il ddl Calderoli non esisterebbe. Anche qui siamo alle comiche finali perché se una maggioranza ritiene buona una legge, la approva e se ne assume le responsabilità senza indugiare in chiamate in correità. Allo stesso modo, un’opposizione seria non si mette in modalità “Alice nel paese delle meraviglie” facendo finta di dimenticare le proprie colpe in ordine all’accresciuto contro-potere regionale. Una doppia, insopportabile, propaganda utile solo a confondere le idee e a confermare l’assenza di un vero spirito riformatore. Diversamente, ciascuno si assumere le proprie responsabilità e nessuno penserebbe alle riforme come altrettante bandierine da piantare in campagna elettorale. Soprattutto se, come nel caso dell’autonomia differenziata, si tratta di una riforma antinazionale, antimeridionale, antistorica.

Antinazionale: è solo un caso che Confindustria abbia marchiato con parole di fuoco il ddl Calderoli opponendovisi come poche volte è accaduto in passato verso altre riforme? O forse tale posizione è dettata dal timore per una perdita complessiva di competitività del nostro sistema-Paese? È esattamente quel che i suoi rappresentanti hanno detto, inascoltati, nelle varie audizioni parlamentari. Venti regioni che diventano altrettanti staterelli sovrani in materie come commercio estero, professioni, grandi infrastrutture, servizi di rete e via sfasciando, finiscono fatalmente per moltiplicare legge, regolamenti, procedure e burocrazie. Alla fine della corsa neppure il Nord sarà più libero, come s’illude Zaia, ma solo più zavorrato da giungle normative che distingueranno regione da regione, materia da materia, competenza da competenza. Basterebbe già questo per rispedire al mittente questa sciagurata riforma.

Antimeridionale: l’economista Gianfranco Viesti ha coniato l’espressione “secessione dei ricchi” per indicare il Nord che abdica alla propria missione di locomotiva nazionale in nome di un egoismo localistico travestito da federalismo. Ma il federalismo è un metodo per realizzare l’unità non per spaccare ciò che è unito da storia, lingua, cultura e religione comuni. Carlo Cattaneo era federalista per condividere la sua condizione di suddito o di cittadino con quelli che considerava i suoi fratelli napoletani o calabresi e non per farsi gli affari suoi in Lombardia. Tradotto in lingua leghista, invece, il federalismo indica una sorta di “tana liberatutti” in barba ad ogni ragione di unità e solidarietà nazionale. Ma è un errore clamoroso. Innanzitutto perché il Mezzogiorno è l’unica parte del territorio nazionale dove l’Italia può ancora crescere e poi perché se oggi il Nord può fregiarsi del titolo di locomotiva è proprio perché c’è il Sud. Ove mai questo venisse staccato dal resto del convoglio, il Settentrione diventerebbe una sorta di Portogallo ma con gran parte delle proprie imprese manifatturiere tributarie della catena di valore produttivo tedesco. Da lì a trasformarsi da locomotiva nel vagone di coda del treno bavarese è un attimo. Senza tralasciare che uno studio della Srm (Società di ricerche meridionali), legata a Banca Intesa, ha certificato che per ogni 100 euro investiti al Sud, quasi 41 tornano al Nord come “dispersione benefica”. Della serie: simul stabunt, simul cadent.

Antistorica: l’autonomia differenziata regionalizza competenze strategiche per la vita di uno Stato, in clamoroso contrasto con l’attuale scenario geopolitico che registra il moltiplicarsi di tensioni internazionali e vede disegnare nuove gerarchie planetarie intorno al tema delle nuove sovranità. Tra queste l’energia, competenza da gestire ormai a livello europeo ma che noi, in aperta contraddizione rispetto allo Zeitgeist e con un non comune sprezzo del ridicolo, vorremmo affidare alle cure dei cacicchi. Già, lo immaginate il “piano Mattei” per l’Africa in mano agli assessori regionali? Non si sa se piangere o ridere. In ogni caso, è meglio realizzare sin da ora che dall’autonomia differenziata arriveranno solo frutti avvelenati. A partire dalla nostra eclissi nei contesti internazionali. Che ci piaccia o meno, l’Italia “differenziata” sarà considerata una mera espressione geografica stretta tra la nostalgia di una ex-nazione, il sogno di un ex-Stato ed un’ultima spiaggia (direttiva Bolkestein permettendo).

(Foto di Stefan Schweihofer da Pixabay)

  • Deputato di Alleanza nazionale dal 1994 al 2013, è stato presidente della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai e ministro delle Comunicazioni nel governo Berlusconi III (2005-2006).