1. Quando i diritti diventano quelli a costo zero per la comunità sociale, o addirittura a saldo positivo, c’è da preoccuparsi. Soprattutto quando proprio i diritti così intesi diventano bandiera della “sinistra”, e tanto più dal punto di vista di coloro i quali, come chi scrive, a una cultura alta della “sinistra” non vorrebbero rinunciare.
Ero membro nel 2005 del Comitato Nazionale per la Bioetica e coordinai i lavori, con Isabella Coghi (grande ginecologa, ella pure fautrice di tale cultura: ci lasciò pochi anni dopo e la ricorda un libro dal titolo perfetto, Umanesimo femminile), per un documento dialogico che fu sottoscritto da tutte le componenti del CNB, da quella radicale a quella cattolica, sull’aiuto alla donna in gravidanza: intendendosi l’aiuto a gravidanza in corso, finalizzato a non dare per indifferente (in nessun caso, compreso quello di rilevate patologie del feto) un esito abortivo. Ci aveva animato la passione per la dignità della donna, non messa in contrapposizione alla vita che con l’aborto si perde: affinché non fosse omesso quel sostegno solidale che può essere decisivo per la scelta di proseguire una gravidanza (il testo è facilmente reperibile sul web, tra i pareri del CNB).
Certo, dire alla donna che ella è già automaticamente tutelata in forza del possibile accesso all’aborto è meno impegnativo: non richiede alcuno sforzo e non implica costi. Il messaggio che si dà è semplificato, quasi che l’esito abortivo sia comunque appagante per la donna e che non debba residuare alcun rimorso nel caso in cui nulla sia stato fatto, prima, per evitarlo (diffidando, anzi, rispetto a ogni forma di aiuto, poiché ciò inficerebbe quel messaggio semplificato); e quasi, altresì, che possa ignorarsi come molte donne pervengano all’aborto in quanto sollecitate dal loro ambiente di vita, poiché la gravidanza rappresenterebbe, per altri, un peso.
Davvero, dunque, risulterebbe contro la donna in gravidanza, o estraneo a una cultura della “sinistra”, assicurarle che la prosecuzione della medesima non sarebbe considerata un onere dalle pubbliche istituzioni e offrirle supporto concreto rispetto alle sue difficoltà? Non richiede proprio questo l’art. 5, comma 1, della legge n. 194/1978, quando assegna ai consultori, nell’ambito del “colloquio” con la donna che potrebbe accedere all’aborto, il compito di operare per «rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione della gravidanza, di metterla in grado di far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, di promuovere ogni opportuno intervento atto a sostener[la], offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza sia dopo il parto»?
Eppure il fulcro viene ora spostato sull’aborto come diritto, piuttosto che come atto il quale (nei limiti della legge) non è punibile, ma che ci adoperiamo, in alleanza con la donna, affinché possa essere evitato. Uno spostamento che di fatto banalizza, nella stessa percezione pubblica, l’esito dell’aborto: cosa, questa, che una legislazione laica, e non ideologica, non può fare. La legge può decidere in qual modo intervenire su determinati fatti umani, ma non può mai oscurare lo spessore del bene giuridico, in questo caso la vita di un essere umano, su cui tali fatti incidono. Il che, in effetti, sia il testo della legge 194, sia le pronunce in materia della Corte costituzionale, avevano inteso evitare.
Mai, del resto, si è arrivati a dire che il por termine alla vita di qualcuno, foss’anche quella di chi attenti alla vita di un altro o del nemico in guerra, costituisca l’oggetto di un diritto soggettivo. Potrà essere un fatto non qualificato come illecito, o non sanzionato, ma pur sempre da prevenirsi per altre vie. Il che vale a maggior ragione quanto si tratti della vita di chi non ha colpa alcuna, se non quella di esistere. Per cui, a ben vedere, sarebbe poco rispettoso rispetto alla stessa dignità umana femminile affermare che la donna, invece, ha un simile vero e proprio diritto rispetto al destino di una tale vita (ben diversamente, il par. 219 del codice penale tedesco, collocato subito dopo le norme riguardanti i casi di non punibilità dell’aborto, esige che la donna, in sede di “colloquio”, si renda «consapevole del fatto che il non ancora nato, in ogni stato della gravidanza, ha, pure dinnanzi a lei, un diritto proprio alla vita»).
Ciò non significa trascurare il fatto che la gravidanza è affrontata, fisicamente e psicologicamente, dalla donna, secondo una situazione che sfugge a qualsiasi parificazione con la figura maschile: ma è proprio per questo che l’accento va riposizionato sull’aiuto alla donna rispetto a una condizione, quella della gravidanza, la quale, anche in assenza di altri problemi, non è affatto adeguatamente sostenuta nella nostra legislazione, nonostante lo stesso vertiginoso calo delle nascite: si pensi soltanto alle difficoltà per le giovani coppie di costituire un nucleo familiare con prospettive di sicurezza economica o alla penalizzazione di fatto della donna per un’eventuale maternità nell’ambito della carriera professionale che abbia intrapreso.
Invece, si è ritenuto di recente in Francia, senza alcuna significativa problematizzazione “da sinistra”, di qualificare tout court nella Costituzione il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza come «libertà della donna, che le è garantita», assegnando alla legge il mero compito subordinato di determinarne le condizioni. Senza che il dibattito in materia, come posto in evidenza dall’episcopato francese, «abbia menzionato le misure di sostegno per coloro che vorrebbero tenere il proprio figlio».
Del pari, una risoluzione dell’11 aprile 2024, non la prima, del Parlamento Europeo chiede che il diritto di accesso all’aborto sia inserito nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE: con adesione pressoché totale della “sinistra”, che – si vorrebbe credere – non ha manifestato di comprendere come un simile passaggio imposti l’approccio giuridico alla questione dell’aborto in termini ben diversi, sul piano teorico, rispetto alle stesse legislazioni vigenti sul tema.
Peraltro, l’indifferenza al risultato abortivo ha ormai una storia radicata nel nostro Paese. Quasi per nulla, infatti, ci si è occupati di come si attui concretamente attraverso i consultori il contrasto, richiesto dal summenzionato art. 5, dei fattori che, gravando sulla donna in gravidanza, favoriscano l’interruzione di quest’ultima, né delle risorse rese disponibili per tale fine. E neppure ci si è fatti carico del problema, evidenziato dai senatori della “sinistra indipendente” già all’epoca della legge 194, per cui un simile impegno, identitario di tale legge, finisce per essere eluso attraverso il “colloquio” effettuabile, ai sensi dell’art. 5, comma secondo, presso qualsiasi medico di fiducia.
Si ricorderà, poi, che quando una «pubblicità progresso», anni fa, intese rendere edotto il grande pubblico, che per lo più lo ignora, del diritto di ogni donna di partorire nell’anonimato senza assumere la posizione genitoriale (per cui, dopo alcune settimane di eventuale ripensamento, si potrà dar luogo a un’adozione) la si dovette interrompere perché una (asserita) linea di pensiero progressista vi vedeva un attentato alla legge 194.
Come pure ci si è opposti, salve alcune iniziative regionali, a fornire per legge un sussidio di ordine anche economico alle donne in gravidanza le quali si orientino a un aborto per ragioni di povertà. Fino a considerare inaccettabile qualsiasi collaborazione con il volontariato sociale di aiuto alle donne in gravidanza, in quanto considerato rivolto a sabotare la legge 194 (identificando del tutto impropriamente l’opera di tale volontariato con i metodi di qualche movimento pro-life americano): quando invece esso mira a garantire che le scelte delle donne non siano condizionate dal bisogno e dalla solitudine, e che quindi possano essere (non solo formalmente) libere. Si ha notizia di donne che sarebbero state costrette, in Italia, dal volontariato sociale a non abortire, contro la loro volontà?
Aveva forse sbagliato Alessandra Kustermann, storica primaria di ginecologia alla Mangiagalli, non obiettrice e artefice di tante iniziative a tutela delle donne, elogiando un’altra donna, Paola Benzi, non vedente e fondatrice presso la stessa clinica Mangiagalli di uno dei primi Centri italiani di aiuto alla vita, che ha aiutato migliaia di donne a proseguire la gravidanza: «La conosco e la stimo da molti anni. Collaboro con lei perché so che le donne che hanno ancora forti dubbi sulla scelta di abortire quando la incontrano non vengono giudicate, ma sono accolte con calore e rispetto» (parole, queste, con cui appoggiava la proposta di attribuire alla Benzi il riconoscimento milanese dell’Ambrogino d’oro)? D’altra parte, basta aprire il sito web di quello storico CAV, o di uno degli altri CAV, per conoscere, non per assunzione pregiudiziale, la loro metodologia di aiuto.
Ė peraltro accaduto, in aprile, che un’ipotesi legislativa nel senso predetto della “destra” abbia trovato una risoluta opposizione “a sinistra”. Ora, si può senz’altro discutere circa la congruità dell’inquadramento di una tale ipotesi nel contesto attuativo del PNRR, come pure circa la strategia politica in cui essa s’inserisce. Ma resta il fatto che simili forme di cooperazione, fermo il rispetto rigoroso delle norme di legge vigenti, risultano del tutto auspicabili in un ordinamento liberale.
Del resto, sarebbe ben difficile sostenere che in Italia, stanti più di 6.200.000 aborti legali censiti attraverso i report ministeriali annuali dall’introduzione della legge 194, vi siano stati impedimenti sostanziali rispetto a ciò che la legge 194 consente, date anche le prassi interpretative dei requisiti che essa, in proposito, richiede. Piuttosto, vi sarebbe da interrogarsi in riferimento a quei dati, anche da parte della “sinistra”, se invece i profili di impegno socio-istituzionale orientati alla prevenzione dell’aborto mediante l’aiuto alla donna, essi pure oggetto qualificante di tale legge, abbiano avuto un’attuazione almeno minimamente credibile.
Né si potrebbe eludere il problema tornando a evocare l’idea suadente, ma priva di base razionale, secondo cui il concepito sarebbe qualcosa di meno rispetto a un soggetto umano. Qui non si tratta di precomprensioni filosofiche: dalla fecondazione è in atto una sequenza esistenziale umana che si evolve autonomamente (cioè per forza propria) fino alla morte in modo continuo e secondo un coordinamento sistemico governato dall’informazione genetica del nuovo individuo, sequenza che può solo essere interrotta: privandola delle condizioni ambientali e di alimentazione necessarie, oppure per fatti patologici o cruenti, o per l’esaurirsi del ciclo di vita.
Viene dunque in gioco un percorso che esprime nel corso del tempo (acquisendole o perdendole) capacità di ordine fisico e psico-intellettivo, ma che è unitario e che, in tal senso, non consegue tali capacità attraverso apporti esterni che le inseriscano, per così dire, in un substrato esistenziale meramente biologico. Per cui, non a caso, una delle più grandi acquisizioni del diritto moderno è quella espressa, per l’Italia, dall’art. 3, primo comma, della Costituzione: secondo cui la dignità sociale dell’individuo, cioè la rilevanza dei suoi diritti nel rapporto con gli altri, non dipende dalle sue «condizioni personali e sociali», e dunque, in particolare, delle capacità che sia in grado di esprimere in un dato momento della sua vita, bensì, esclusivamente, dal suo essere un individuo umano. Norma, questa, che costituisce il fondamento sostanziale del principio di uguaglianza, vale a dire della democrazia, e la cui stabilità, pertanto, dovrebbe premere particolarmente, sebbene certo non esclusivamente, alla “sinistra”: considerato, fra l’altro, che una volta incrinato il principio espresso attraverso di essa, ciò potrebbe avvenire anche in contesti delicatissimi ulteriori.
È la realtà umana che ha le sue complessità, le quali non possono essere eluse mediante artifici terminologici (per esempio, ancora, lasciando intendere che i c.d. contraccettivi di emergenza non interferiscano mai con il procedere della vita di un embrione già sussistente e, pertanto, non interrompano mai una gravidanza, in quanto s’è passati a definire quest’ultima come la fase che procede, fino al parto, non già dalla fecondazione, ma dall’annidamento dell’embrione nell’utero della donna).
2. Il rischio di sminuire l’azione politica privilegiando i diritti “a costo zero” riguarda, peraltro, le forze parlamentari, e la “sinistra”, anche con riguardo ad altri temi della bioetica, cui si farà solo qualche cenno.
Fermi, per esempio, il ruolo del consenso circa la protrazione dei trattamenti sanitari e l’opposizione a trattamenti oltranzisti o comunque sproporzionati, l’enfasi sul c.d. diritto di morire, cioè di ricevere altrui cooperazione all’anticipazione della propria morte, finisce per accantonare questioni del massimo rilievo ai fini di una tutela non solo formale della persona.
In primo luogo, il fatto che scelte di morte del malato dipendono, in una gran parte dei casi, dalle risorse umane e mediche poste a disposizione perché il malato stesso, anche quando risulti impossibile la sua guarigione, non soffra, non sia relegato in uno stato di abbandono e non percepisca la propria esistenza come un peso per gli altri.
In secondo luogo, e soprattutto, deve considerarsi che, una volta istituzionalizzato il c.d. diritto di morire, l’essere curati in condizioni di cronicità o di precarietà esistenziale non costituisce più la normalità, bensì l’oggetto di una richiesta, e pertanto di una pretesa, da parte del paziente e dei suoi familiari: poiché risulta percorribile la decisione alternativa del farsi da parte. Con un’implicita colpevolizzazione di chi non agisca in tal modo, data anche la serrata compagna massmediatica intesa a presentare quella decisione alternativa come la scelta dignitosa in certe condizioni.
Potrebbe non tenersi conto, quindi, di come a monte della pressione in favore del c.d. diritto di morire finiscano per nascondersi anche ben precise considerazioni di ordine economico, dato, fra l’altro, il continuo incremento delle persone fragili in tarda età? Non dovrebbe costituire pure questo, pertanto, un tema centrale per la riflessione della “sinistra”? Il monito a non coltivare una cultura dello scarto costantemente rivolto da papa Francesco – che non è certo un’autorità morale di stampo conservatore – dev’essere ignorato?
Non posso dimenticare che, quando ero membro, una decina d’anni orsono, di una commissione ministeriale sugli stati di veglia non responsiva, la preoccupazione delle associazioni familiari non era quella volta ad anticipare l’eventuale esito infausto di tali condizioni, ma quella di perdere i supporti forniti per tali condizioni dal Servizio Sanitario Nazionale.
Aveva forse torto, del resto, Luciano Violante quando affermava che «il tema dell’eutanasia, in un momento di forte crisi della spesa sanitaria in tutto il mondo, va preso con le molle, se non altro per una ragione pratica: questa finisce per essere la morte dei poveri», aggiungendo: «a un povero malato grave gli puoi spiegare meglio che non c’è niente da fare, e una volta che questo dato entra nella legge, cioè entra nei principi dello Stato, la deriva mi parrebbe in qualche modo inevitabile»?
E ancora, ad esempio: perché dare per scontato, nelle proposte provenienti dalla “sinistra”, che l’aiuto al suicidio circa i casi ammessi dalla Corte costituzionale (al di là di qualsiasi giudizio su tale scelta) dovrebbe costituire un obbligo da espletarsi, contro quel che ha scritto la Corte, ad opera del Servizio Sanitario Nazionale, cioè in parallelo alle attività terapeutiche ordinarie: quando ciò non avviene neppure in Svizzera?; e perché ritenere che le cure palliative debbano essere solamente offerte al malato che intenda usufruire di tale aiuto, anziché configurare il coinvolgimento in esse, come vuole la Corte, quale presupposto per una richiesta che si asserisce motivata dall’insopportabilità delle sofferenze?
Altro tema, fra i molti: davvero, in materia di procreazione medicalmente assistita, potrebbe non affrontarsi l’interrogativo, centrale per esempio con riguardo all’ambiente, su ciò che nell’ambito di quanto consegnatoci dalla natura non sia accidentale, ma coessenziale all’umano? Per cui, in radice: la procreazione implica una coppia generante o può consistere semplicemente nel commissionare a un laboratorio che disponga, comunque, di gameti la generazione di un embrione (salvo poi l’eventuale, inevitabile coinvolgimento di una donna ai fini della gravidanza)? Come affermava il premio Nobel italiano Renato Dulbecco, non è la mera possibilità tecnica il criterio del fare (e dunque nemmeno della correlata istituzione diritti).
Oppure, su un piano che non coinvolge la legge ma il messaggio educativo, non sarebbe bene saper dire anche “da sinistra”, in tal modo operando prevenzione, che la sessualità, presupposto il rispetto assoluto del consenso sancito in tale materia dal diritto, dovrebbe tuttavia conseguire a una pregressa esperienza relazionale che abbia portato al riconoscimento dell’altra e dell’altro come persona?
3. Di questi temi sarebbe bene poter discutere anche nella “sinistra” (per esempio, in un tavolo di lavoro): evitando di estrometterli in quanto frettolosamente riferiti alla mera sensibilità di una componente, quella cattolico-democratica, che alcuni potrebbero ritenere non più significativa, e in via di rottamazione.
L’emarginazione di quei temi, e anche – bisogna ammetterlo – dell’incidenza culturale di quella componente, ha avuto, tuttavia, un costo elettorale enorme, la cui consapevolezza viene troppo facilmente rimossa affermando che non esiste più un voto “cattolico”: ciò con cui si dimentica che determinate sensibilità risultano assai più estese nel nostro Paese rispetto all’area dei cattolici praticanti, né sono qualificabili di matrice meramente confessionale. Come le forze della “destra” hanno ben compreso.
Né si potrà accusare quella componente di una sensibilità orientata soltanto a tali temi: se è vero, per esempio, che andrebbero considerati con ben maggior impegno, nell’ambito della “sinistra”, problematiche cui tale componente è altrettanto sensibile, come quella relativa alla complessa progettazione di politiche di pace nei rapporti internazionali oppure quella del sostegno concreto in favore dei più poveri, che non può essere rimessa alle sole iniziative del volontariato sociale.
Si tratta di tornare a tessere un umanesimo conforme alla cultura della “sinistra”. Altrimenti si finisce per scivolare verso paradossi ideologici socialmente incomprensibili, come quello, pur marginale ma sintomatico, rappresentato dal recente parere negativo della commissione milanese per la collocazione di opere d’arte in spazi pubblici (parere, poi, non condiviso dal sindaco) circa l’inserimento nel contesto di una piazza della statua bronzea di Vera Omodeo rappresentante una donna (svestita) che allatta, e ciò in quanto essa rappresenterebbe «valori certamente rispettabili ma non universalmente condivisibili da tutte le cittadine e i cittadini, tali da scoraggiarne l’inserimento nello spazio pubblico», in quanto il tema della maternità risulterebbe per tale via «espresso con delle sfumature squisitamente religiose».
Si tratta, in sintesi, di evitare, nella “sinistra”, una sorta di antinomia tra l’affermazione dei diritti individuali, che talora non è rimasta esente da esasperazioni ideologiche con effetti controproducenti, e quell’impegno in favore dei diritti sociali, più difficili da coltivare, a beneficio delle persone necessitanti di sostegno e dei cittadini più deboli economicamente: impegno che della “sinistra” dovrebbe rappresentare caratteristica identitaria.
(Foto di Seven Shooter su Unsplash)