Il Ramadan batte il Venerdì santo. Noi colonizzati e coranizzati: così titolava il proprio editoriale su «Il Giornale» del 24 marzo 2024 Vittorio Feltri, lamentando l’eccessiva attenzione mediatica concessa al Ramadan rispetto alla nostra Quaresima.
Del resto, era stato anticipato da «La Nuova Bussola Quotidiana» con un plateale attacco diretto al presidente della Cei, cardinale Zuppi: «Cosa succede quando un arcivescovo, anziché fare una semplice telefonata all’imam, si mette a scrivere una simil-lettera pastorale ai musulmani? Può accadere una cosa sola: che scelga la strada dell’approccio più irenico possibile, che si traduce nel più meschino indifferentismo religioso. E infatti Zuppi intavola un parallelo tra Quaresima e Ramadan che inizia con un ‘il Ramadan, così come la Quaresima’, e finisce con l’equazione ‘Ramadan-Quaresima’. Un’equazione che richiede ovviamente un piccolo sacrificio: quello di Gesù Cristo. Perché è solo a questo prezzo che il digiuno, la preghiera e l’elemosina dei fedeli delle due religioni, su cui il cardinale basa il suo messaggio, finiscono per uguagliarsi».
Troppo spesso il verbo del guru di turno torna a offuscare l’evento del Verbo incarnato che si è fatto prossimo di tutti, partendo dai più poveri e lontani, affinché non proclamassimo dogmi ma ne seguissimo l’esempio ben oltre liturgie e riti: «Fate questo in memoria di me». Questo è appunto ciò che fa la differenza. Non proclamarlo, ma viverlo. Impegnato in prima persona da quasi mezzo secolo nel dialogo coi musulmani, tanto da essere stato incaricato di tale funzione nella mia diocesi dal cardinale Angelo Scola durante il suo mandato, provo un profondo disagio di fronte a questo approccio neo-apologetico, ad esser clementi, se non del tutto assimilazionista.
Decenni di Teologia delle religioni sembrano passati invano e miliardi di «diversamente» credenti si ritrovano ad essere il bersaglio di un inconcludente proselitismo che ha da secoli dimostrato il proprio fallimento. Son ben consapevole che un dialogo autentico ed esigente non può né deve fermarsi a pacche sulle spalle e reciproche manifestazioni di apprezzamento e di stima. Specialmente in periodi di crisi e disorientamento come quello che ci è dato di vivere occorre andare dritti al cuore della questione. E il nocciolo della questione sono le domande fondamentali del «senso religioso»: da dove vengo? qual sarà il mio destino? che ci stiamo a fare tu e io in questo abissale mistero? Condividere ogni esperienza autentica di ricerca della verità e ogni inevitabilmente limitato tentativo umano di farsi strada verso di essa non è irenismo.
Non si tratta, in altre parole, di aver ragione, ma di ascoltare e seguire le ragioni di ognuno. Pretendere di sapere cosa sia il dialogo senza un preliminare ascolto dell’altro che ci si fa incontro, come tutto il resto, per riaccendere e approfondire, per dirla col poeta Paul Eluard: «le dur désir de durer» è cosa da azzeccagarbugli destinati a perdersi nei propri bizantinismi.
Proprio perché la nostra Quaresima ha perduto le dimensioni della rinuncia, della penitenza e del digiuno, l’esempio di molti musulmani magari analfabeti o comunque meno istruiti e progrediti di noi potrebbe suscitare qualche seria riflessione a proposito di questa e di altre questioni «non negoziabili» che vengono a sproposito sollevate in un triste sequenza di linee rosse che proprio l’attuale pontefice non cessa di porre a tema per indurci a maturare un cristianesimo adulto, del resto in perfetta linea con le ultime parole annotate da Papa Giovanni XXIII: «Non è il Vangelo che cambia, siamo noi che cominciamo a comprenderlo meglio».
Tornando all’editoriale di Feltri, qualche considerazione sull’approccio tipicamente mediatico al tema rivela non tanto il livore autoreferenziale degli «scombussolati» di cui sopra, quanto la patente banalizzazione di ogni argomento per farne oggetto di sterile polemica fra opposte tifoserie. Se dicessi a un amico, scusandomi per il disordine e la scarsa pulizia del mio appartamento, che la colpa è della mia «filippina» che è andata in ferie, lui capirebbe che sto parlando della mia collaboratrice domestica. Ma dovendo avvisare il portinaio o l’amministratore per iscritto non userei mai il termine etnico. C’è una bella differenza fra il gergo quotidiano e il linguaggio utilizzato per designare le cose appropriatamente! Purtroppo, anche persone di cultura mi hanno spesso detto: «Cosa vuole, tanto fra qualche anno saremo tutti musulmani!»
Chi crede che tra non molto 60 milioni di italiani smetteranno di bere vino e di consumare salumi e che le donne porteranno tutte il velo non denuncia la strisciante e insidiosa islamizzazione del Bel Paese, ma mostra un encefalogramma piatto. Quasi fossimo una specie vegetale o un tipo di insetti minacciati da esotici intrusi. Fortunatamente siamo stati creati dotati d’intelletto e sia il buon senso che la storia smentiscono i profeti di sventura che hanno buon gioco a stuzzicare reazioni viscerali anche di fronte a fatti marginali.
Fissando il dito e ignorando la luna, si finisce così per non cogliere le straordinarie opportunità che vivere fianco a fianco con altri potrebbe offrirci. Di fatto è già così: i miei studenti, quando cito uno dei numerosissimi personaggi biblici citati nel Corano, si accorgono di non saperne nulla e i più intelligenti cercano di colmare la lacuna che impedirebbe loro di apprezzare fondamentali opere di letteratura occidentale, come Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann (che non si riferisce allo sposo di Maria, ma al figlio di uno sconosciuto Giacobbe, che di soprannome faceva Israele…) così come di dipinti, sculture e melodrammi. Persino un capolavoro della musica dodecafonica si intitola Mosè e Aronne. Harun, in arabo, nome di uno dei maggiori califfi della Baghdad medievale ben noto a tutti i musulmani.
Le radici giudaico-cristiane che stanno sottoterra e non si vogliono citare nei documenti di un’Unione Europea laicizzata e tendenzialmente anti-religiosa, riemergono così nel confronto coi fedeli dell’islam: fede che resterebbe incomprensibile senza gli antecedenti due monoteismi abramici, come ciascuno può constatare aprendo anche a caso una traduzione italiana del Corano. Mosè è il profeta più ricorrente in assoluto e molti precetti islamici sono la pura fotocopia di corrispondenti ebraici: dalla circoncisione alla preghiera, dai digiuni alle regole alimentari, dalle norme di purità rituale alla sepoltura dei morti.
L’analfabetismo religioso che ci contraddistingue troverebbe pertanto un antidoto nella presenza dei nostri ‘fratelli minori’, nati nel solco biblico poco più di sei secoli dopo Gesù. A patto, ovviamente, che di tale occasione si intendesse approfittare con una gestione consapevole e responsabile del fenomeno. Se lo scopo è soltanto quello di gridare «al lupo!», allora ogni considerazione ragionevole e ogni prassi efficace sarebbero fatalmente accantonate. Chi, di fronte a una sfida, si limita a subirla passivamente limitandosi a lamentarsi e a lanciare grida di allarme, avrebbe perso in ogni caso ancor prima di cimentarsi nella lotta.
(Foto di ibrahim abdullah su Unsplash)
Buongiorno, in realtà il timore è di promuovere un modello sociale indifferentista e relativista, Evidentemente, però, già il prendersi cura, e affrontare, anche speculativamente e comparativamente, il significato della diversa pratica religiosa, senza demonizzarla o facendone un taboo, si pone in un’ottica atta a promuovere le condizioni, anche sociali (e perchè no, politiche), per un’autentica ricerca religiosa.