Il dibattito sul conflitto israeliano-palestinese si svolge prevalentemente sul terreno geopolitico con una duplice connotazione. Da un lato lo spessore storico della contrapposizione armata viene spesso rimosso, dall’altro la contesa tra commentatori si traduce in una polemica di opposte tifoserie al punto che lo stesso dramma delle vittime, dell’una e dell’altra parte, finisce col passare in secondo piano. Il caso delle donne ebree stuprate e sottoposte a inenarrabili violenze da parte dei miliziani di Hamas, e nei cui confronti è stata riservata una tiepida solidarietà, se non addirittura una colpevole distrazione sino al silenzio, costituisce un esempio sconcertante.
Un’approfondita riflessione sulle radici culturali e religiose dello scontro in atto viene ora offerta, invece, da uno studioso del pensiero ebraico, Massimo Giuliani, col suo “Gerusalemme e Gaza. Guerra e pace nella terra di Abramo” (Scholé-Morcelliana, 107 pp., 12 euro). Lo sguardo dell’autore è indirizzato su credenze e simboli religiosi, sulle radici culturali di ascendenza plurisecolare che sottostanno, ispirandole, alle decisioni politiche adottate e agiscono sugli accadimenti in corso. Insomma una lettura volta a proporre una interpretazione in chiave di teologia politica di quanto sta avvenendo, incentrata sulle figure delle due città -appunto Gerusalemme e Gaza- come delineate nella Bibbia, nonché nelle tradizioni rabbiniche e islamiche. A partire da una “idealità religiosa e statuale di natura idealmente teocratica” che il sionismo incorpora, trovando il proprio fondamento nella promessa di Dio ad Abramo all’origine del legame particolare fra Israele e la sua terra, della stessa memoria ebraica alimentata dalla speranza messianica, protrattasi nei secoli, di una restaurazione di Sion, il colle su cui sorge Gerusalemme, assurta a simbolo della città e della sua spiritualità.
Quanto alla storia di Gaza – la città e la sua area geografica, la Striscia – essa si intreccia sì con quella della storia di Israele, ma non si identifica con questa, rappresentando “una specie di confine, di limite” nella mappa della “Terra promessa”. Giuliani è molto puntuale nella ricostruzione della vicenda di Gaza, da avamposto egizio alla dominazione ottomana, sino al controllo da parte di Hamas. Esso rivendica come terra islamica l’intera Palestina e si prefigge la distruzione di Israele, “la vera posta in gioco” dell’attuale conflitto, in cui reciprocamente si alimentano fanatismo dell’Islam apocalittico che vuole scacciare “gli infedeli” e messianismo ebraico, per il quale “la terra di Canaan diventa eretz Israel, la terra di Israele”. Una nazione da sempre alle prese con un dramma teologico-politico che rimanda alle figure dell’esilio e del ritorno a Sion, nonché alla polarità spaziale diaspora-terra di Israele. Anche il giudaismo odierno affonda le sue radici nella memoria di dolorose e tragiche sconfitte militari che contrassegnano da secoli la storia ebraica, attraversata dalla speranza dialettica tra “il particolarismo della chiamata-elezione e l’universalità della sua missione/insegnamento”. Una polarità che contrassegna la stessa tradizione biblica, dove accanto ai profeti per la guerra si annoverano profeti contro ogni guerra – “le nazioni spezzeranno le loro spade per farne delle vanghe e le loro lance per farne delle falci da fieno” –, per cui uno dei valori fondamentali dell’ethos ebraico è lo “shalom”, la pace. Un nome proprio anche della tradizione islamica nella quale il jihad, secondo la lezione del grande Al-Ghazali, teologo musulmano di origine persiana, è sforzo, impegno, lotta spirituale prima che “guerra legale”.
Giuliani a questo punto conclude la sua analisi volta a cogliere le motivazioni anche religiose di una guerra pluridecennale, delineando le condizioni culturali di un riconoscimento reciproco in grado di promuovere percorsi di pace e di convivenza abilitati a porre termine al ripetersi di infinite violenze inferte nel nome dei principi dell’autodeterminazione e della sicurezza. Questo per dire, con Stefano Levi Della Torre, che “sì, questo è l’ennesimo scontro di civiltà” e non solo “tra blocco e blocco geopolitico”, ma “dentro e nel cuore di ogni nazione” sino ad attraversare ogni civiltà, terra e Paese. E, con Emmanuel Levinas, che “il senza via d’uscita di Israele è probabilmente il senza via d’uscita umano”.