Il recente volume di Guido Formigoni, Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio, Storia della Democrazia cristiana. 1943-1993 (Il Mulino 2023) propone alcune risposte alle numerose questioni che attraversano la vicenda del partito che è stato al centro del sistema politico italiano per cinquant’anni. Pur con accenti diversi, i tre autori del libro propongono una ricostruzione della storia della Dc particolarmente attenta alla politica interna italiana, a partire dagli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale fino alla dissoluzione del partito.
Tra i fili più evidenti della trama del libro vi sono, in effetti, le relazioni della Democrazia cristiana con gli altri partiti. Tali rapporti sono stati ora di alleanza, ora di competizione, ora di contrasto soprattutto rispetto al Partito comunista, molto più che verso i partiti della destra. Saldamente inserita nel sistema politico pluralistico del secondo dopoguerra, la Democrazia cristiana emerge come il perno intorno cui si sviluppò una parte notevolissima della vita politica italiana, con una spiccata capacità di mediazione sia al suo interno tra le varie componenti, sia all’esterno verso i potenziali alleati di governo e verso le varie forze sociali che si riferivano al “partito cattolico”. Questa mediazione divenne un tratto identitario del partito, quasi una sua ragion d’essere soprattutto, come ricorda Pombeni, con la fine dell’esperienza dossettiana, quando si imboccò più risolutamente la strada prospettata da De Gasperi di «una strutturazione della Dc come partito politico piuttosto che come movimento culturale-ideale con proiezioni politiche» (p. 106).
Un secondo filo che attraversa i diversi capitoli del libro punta a considerare la storia della Dc come strettamente connessa alle vicende dei governi di cui fu alla guida o di cui fu comunque componente principale. Come emerge nei vari capitoli, il rapporto tra governi e Democrazia cristiana fu sempre una relazione biunivoca, dato che gli orientamenti presenti nella Dc, per esempio sulla politica economica o sul posizionamento dell’Italia sulla scena internazionale, condizionarono pesantemente le scelte di volta in volta definite dai governi.
E proprio il confronto interno alla Dc rappresenta un terzo filo tenace nella trama del libro. Il racconto si snoda, cogliendo gli elementi di continuità tra le diverse stagioni, ma anche le fratture avvenute nelle correnti e nel loro ruolo di motore della dialettica nel partito. Il confronto fu influenzato dalle personalità alla guida delle diverse correnti che nel libro sono seguite nei loro diversi posizionamenti e nei loro alterni rapporti. Il dinamismo delle varie componenti fu condizionata anche dal particolare radicamento territoriale di alcune di esse e dalle relazioni di ciascuna di esse con precisi gruppi sociali e visioni culturali. Più si seguono, attraverso le pagine del volume, le tensioni tra i gruppi e gli accordi tra i notabili del partito, più si conferma l’immagine della Dc come un organismo poliedrico, non un monolite compatto, ma neanche un amalgama confuso di correnti continuamente in lotta per la propria sopravvivenza.
Il libro riesce dunque, con ampiezza e in modo documentato, a rispondere a molti interrogativi che circondano l’“enigma Democrazia cristiana”, a partire dai motivi per cui un partito con caratteristiche del tutto peculiari nel panorama europeo sia riuscito a raggiungere e a conservare per quasi cinquant’anni e fino al suo scioglimento un ruolo di assoluto rilievo nel paese. In tale quadro, il volume induce a soffermarsi su almeno tre questioni essenziali per comprendere la storia della Democrazia cristiana.
La prima questione riguarda la tensione tra partito come struttura organizzata per la gestione del potere pubblico, da una parte, e partito come movimento di opinione e luogo di formazione politica in particolare dei cattolici, dall’altra. Vi è da chiedersi quanto la preponderanza della gestione del potere rispetto alla tensione ideale sia stata la conseguenza di una scelta consapevolmente condotta dal gruppo dirigente democristiano per emarginare posizioni difficilmente controllabili oppure quanto questa prevalenza sia stata il prodotto dell’auto-emarginazione di chi ha abbandonato il campo dopo aver tentato di realizzare un progetto troppo ambizioso oppure, all’opposto, l’esito di circostanze incontrollabili da parte dei protagonisti. La domanda riguarda evidentemente il caso di Giuseppe Dossetti, come pure le difficoltà incontrate, per esempio da Aldo Moro, per formare una nuova classe politica democristiana anche in vista del rinnovamento della Dc e, attraverso questa, della politica italiana.
La seconda questione riguarda il rapporto della Democrazia cristiana con le gerarchie ecclesiastiche e con le organizzazioni del cattolicesimo. Democrazia cristiana e Chiesa cattolica sono stati specchi che per lungo tempo si sono riflessi all’infinito, istituzioni diverse e a volte tra loro confuse, in grado di rappresentare la realtà del paese, ma pure di distorcerla, di rafforzare reciprocamente la propria visibilità pubblica e la propria influenza sociale, ma anche di creare cortocircuiti sul piano politico e su quello religioso. In questo rapporto di lungo periodo, Guido Formigoni sottolinea il momento di cesura del Concilio vaticano II, con esiti in qualche misura paradossali. Infatti, «proprio quando maturavano le consapevolezze magisteriali e dottrinali che assicuravano una comprensione maggiore della laicità e dell’autonomia del comportamento dei credenti nella sfera sociale e politica (la cui assenza aveva causato così tante tensioni fino a pochi anni prima), la Dc si sentiva imbarazzata, in quanto rischiosamente scoperta nella propria necessità di legittimazione esterna, e anche un po’ a rischio del proprio futuro» data la difficoltà a raccogliere il consenso di fronte al crescente pluralismo dell’elettorato cattolico (p. 287).
La terza questione riguarda la fine della Democrazia cristiana. Come sottolineato da Giorgio Vecchio, all’inizio degli anni Novanta era evidente «il grado di confusione, di litigiosità e di risentimenti personali nei quali si era avviluppata la politica italiana» (p. 551). Si erano ormai radicati scontri feroci tra le istituzioni pubbliche, lo scollamento crescente tra centro e periferia, la permeabilità della Dc alla corruzione politica, le opache collusioni di alcuni esponenti del partito con la criminalità organizzata, l’incapacità dei governi a rispondere in modo credibile alla crisi dei bilanci pubblici. La questione – per riprendere la metafora di Giorgio Vecchio – è come la malattia certo grave della Dc, che però ancora raccoglieva la maggioranza relativa dei voti, sia diventata l’occasione di un tracollo mortale (p. 553). O forse la domanda può essere ribaltata per chiedersi come mai, nonostante tali debolezze fossero presenti da tempo, la scomparsa della Dc avvenne soltanto nel 1993. Il “fattore K”, quello comunista, fu così rilevante? Oppure l’incerto sostegno delle istituzioni cattoliche non era più sufficiente a garantire una base stabile di consensi alla Dc? O gli Stati Uniti non avevano ancora trovato un successore affidabile alla guida dell’Italia?
Lo sforzo di comprensione delle vicende della Democrazia cristiana fa precipitare qualsiasi tentativo di semplificare la sua storia, che fu ramificata, affollata, multiforme, e spinge a valutare la difficile eredità che la fine del partito ha proiettato sulle sorti successive dell’Italia repubblicana.