Anche al Consiglio europeo della settimana scorsa (addirittura!) è circolata una retorica bellica tutt’altro che consueta. Il tema della preparazione alla guerra è una novità, che si aggiunge alla solita incapacità a fare qualcosa di concreto in termini di decisioni comuni dei 27 paesi membri. L’Unione non si avvia alle elezioni di giugno per il parlamento in forma particolarmente smagliante, purtroppo.

            Ma il tema è ben più ampio: ovunque in Europa tira un’aria molto preoccupante. Sembra di tornare alla condizione della Belle Époque, all’inizio del ‘900. Anche in quel periodo l’ultima grande guerra europea era lontana nel tempo (quasi un secolo prima, il ciclo napoleonico era stato enormemente distruttivo), e si combinò uno strano disposto di atteggiamenti contrastanti. Da una parte nessuno credeva veramente alla possibilità di una guerra globale: il giornalista Norman Angell scrisse un libro best-seller, La grande illusione, in cui sostanzialmente spiegava che dati i nuovi profondi legami economici esistenti tra i diversi paesi, ormai la guerra era divenuta impossibile. Nel frattempo, i maggiori governi stringevano rigide alleanze difensive, accrescevano gli armamenti, pianificavano una guerra ipotetica e mettevano nel conto l’ipotesi dello scontro. Nessuno diceva di volere attivamente una guerra, mentre tutti insistevano sulla prevenzione e la sicurezza: ma la possibilità concreta di un conflitto diveniva nei fatti uno scenario sempre più credibile. I conflitti locali nei Balcani sembravano lontani ed esotici, ma preparavano condizioni progressivamente più intricate e conseguenze più vaste. Nelle opinioni pubbliche dei paesi democratici (per non parlare di quelli più tradizionali ed autoritari) si infiltrava il virus del nazionalismo assoluto, che screditava la diplomazia e la possibilità di intese con gli altri Stati-nazione, coltivando l’idea delle inimicizie secolari. Rappresentando il nemico in modo sempre più cupo e irriformabile.

            Anche oggi si oscilla tra queste due sensazioni: la superficiale convinzione che comunque non succederà niente e la preparazione accanita, la retorica del riarmo, l’allarme propagandistico, la rigidità delle posizioni diplomatiche. Il conflitto in Ucraina non vede all’opera nessuna diplomazia convincente e stagna in una situazione di stallo duraturo. La retorica dello scontro globale tra democrazie in pericolo ed autoritarismo espansionista cresce ogni giorno. Sulla tragedia in corso a Gaza, ormai sembra che non ci sia politica in grado di condizionare gli eventi e di far uscire da una spirale militare e da violenze senza fine apparente: gli stessi Stati Uniti fanno fatica ad attuare le istanze di moderazione cui a parole sono dedicati.

            Nel nostro paese succedono parecchie cose che sembrano portare acqua a questa condizione pericolosa. Da una parte, abbiamo ormai i cantori e i sostenitori programmatici del militarismo. Su «Il Foglio» Giuliano Ferrara e soprattutto il direttore Claudio Cerasa si sono incaricati di rilanciare il motto «si vis pacem para bellum», invocando la militarizzazione della società e degli spiriti, l’aumento delle spese per la difesa e il raddoppio del numero dei militari in servizio per prepararsi a un attacco russo all’Occidente ipotizzabile entro due-quattro anni («Il Foglio», 12 febbraio). Il discorso pubblico batte ormai chiaramente in questa direzione, e sono poche le voci contrarie che si levino ad argomentare che il riarmo non può essere esaustivo di una politica.

            Infatti, non si discute più di politica estera. Il parlamento è stato chiamato a dibattere solo su un argomento: se e quante armi si debbano inviare in Ucraina. Capisco l’importanza discriminante del tema (a parte che l’opinione pubblica è poi resa edotta solo di cifre finanziarie complessive, non dei contenuti specifici degli invii effettuati). Ma non dovrebbe essere normale chiedersi: quale obiettivo politico hanno gli aiuti militari? Che risultato vogliamo ottenere, con quale calcolo delle possibilità e dei rischi, in una situazione opaca? Sembra invece che ci si accontenti di gingillarsi con vaghi e generici concetti di vittoria e di sconfitta. Come se fosse realistico, in una guerra come quella in corso da due anni, raggiungere una vittoria definitiva, da una parte o dall’altra. Possibile quindi che la politica estera di un paese moderno consista solo di questi limitati campi di interesse? Non sarebbe il caso di ragionare di scenari, di opportunità, di possibilità, di relazioni da costruire, di legami ed amicizie, di modi di stare nelle alleanze? L’Italia è inequivocabilmente – per oculata scelta passata – parte dei paesi democratici legati all’alleanza atlantica, è paese fondatore e membro importante dell’Unione europea: ebbene, sembra si concepiscano ormai questi legami internazionali esclusivamente come scelte di schieramento, di allineamento dietro alla «linea» stabilita da qualcuno tra i più forti membri dei due consessi, in particolare gli Stati Uniti d’America. A ben ragionarci, è curioso che si arrivi a questo punto con un governo di destra che usa abbondantemente della retorica della nazione, della sua originalità, del suo primato, della difesa dei suoi interessi. Il sovranismo verbale si stempera però abbondantemente nella realtà dello scenario internazionale. Mentre serve per ostacolare le scelte di maggior coesione europea, ha scelto un paravento occidentalista rigido e primitivo.

Ora, è ben chiaro che non pretendiamo dall’Italia quello che l’Italia non può essere, date le sue caratteristiche demografiche, geografiche, linguistiche e soprattutto economiche. Siamo un paese europeo intermedio, non dei più influenti. Ma un paese di questo tipo può costruire una sua politica e utilizzare anche i suoi vincoli e le sue relazioni internazionali per un sobrio e intelligente perseguimento dei propri interessi. Descrivere pacatamente e realisticamente questi interessi, collegati ai valori che muovono le scelte del paese, non è un esercizio retorico. Dovrebbe essere il presupposto per orientare anche il modo di stare nelle alleanze, che sono spazi di dialogo, di confronto di punti di vista e interessi anche parzialmente diversi, al cui interno si possono costruire istanze sempre più partecipate e convinte, linee politiche non troppo unilaterali, che considerino anche punti di vista originali. In passato il nostro paese fu più volte accusato di essere «la Bulgaria della Nato» (il parallelo era con il paese balcanico più rigidamente filosovietico), per il suo apparente atlantismo a tutta prova: molti studi storici stanno smentendo quella posizione polemica, mostrando un ruolo ben più articolato, in cui contavano anche un convinto orizzonte nazionale, l’attenzione al Mediterraneo, il rapporto con i paesi emergenti, l’orientamento alla distensione e alla convivenza internazionale, ottenuta anche interloquendo con gli avversari dell’«altra» Europa del socialismo reale. Ebbene, è un patrimonio così disdicevole da riprendere e adattare ai tempi nuovi? I sovranisti di oggi si mostrano meno «nazionali» dei vituperati democristiani o socialisti del passato?

Ma ancora: che senso ha enfatizzare oltre ogni realismo le minacce alla nostra sicurezza? La Russia di Putin è stata per anni un interlocutore «normale» dell’Occidente (addirittura assistiamo alla pubblicazione sui giornali delle foto dei politici italiani che stringevano le mani di Putin e qualcuno deve anche precisare… che si trattava di altri tempi). Dopo il febbraio del 2022 e l’attacco all’Ucraina è comprensibile che le cose siano mutate, a causa degli imperscrutabili calcoli politici del dittatore, che ha scelto di attaccare l’Ucraina. A parte ogni considerazione dei motivi non solo unilaterali di questo esito del precedente trentennio di storia dei rapporti Occidente-Russia post-sovietica, è comunque possibile considerare Mosca per il futuro solo come una potenziale minaccia di aggressione? Un paese che non riesce a venire a capo della resistenza di un esercito come quello di Kyiv sarà pronto tra poco ad aggredire la maggiore alleanza militare del mondo, la Nato? E le debolezze economiche e organizzative di Mosca non le contiamo? L’attentato sanguinoso nella capitale è il segno chiaro di questi limiti nella capacità del paese di gestire la propria sicurezza, dopo che Putin su questo punto si era speso nella vicenda delle elezioni-plebiscito. Le spese militari della Russia sono (nonostante quello che molti affermano) molto più basse di quelle dell’Unione europea e l’economia che sta alle spalle di Putin è del tutto sproporzionata come risorse e dinamismo a quella dell’Ue. Mettiamo pure nel conto che con un’eventuale e non augurabile nuova presidenza Trump gli Stati Uniti potrebbero allontanarsi come perno centrale della propria politica dall’Europa (ma vorrei vedere se chiunque, Trump compreso, da Washington possa veramente pensare di sciogliere la Nato e abbandonare l’Europa al proprio destino…). Mettiamo pure nel conto che gli eserciti europei potrebbero essere ben più efficienti senza ulteriori spese militari se coordinati con una politica di difesa comune (tema cruciale). Ma se il punto è costruire una sobria politica di dissuasione dalle aggressioni ipotetiche, siamo molto avanti su questa strada. Perché alzare polveroni allarmistici? Vogliamo provocare quello che profetizziamo come ineluttabile?

E ancora, che senso ha la retorica sulle nuove guerre fredde, sullo scontro tra «the West and the Rest»? Ribadire questa sindrome da democrazie assediate è esattamente cattiva politica, perché spinge tutti i paesi non occidentali, del variegato Sud del mondo, che sono molto incerti, divisi e plurali, a mettersi assieme per contestare frontalmente un blocco di paesi che si presenti come il difensore dei privilegi e della ricchezza.  Non abbiamo ancora capito che la lezione della storia è che ogni progetto di vera egemonia richiede inclusività, capacità di allargare il numero degli interlocutori, di dividere casomai gli avversari, di moltiplicare le relazioni bilaterali, di rappresentare un futuro comune e non una contrapposizione data per ovvia e incolmabile?

Sembra quasi che vogliamo far di tutto per ripresentare il clima della Belle Époque. Con leggerezza corriamo sull’orlo del precipizio. Dio non voglia che stiamo inconsapevolmente preparando un nuovo 1914.

(Foto di Rob Martin su Unsplash)

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.