Secondo papa Francesco, con riguardo all’Ucraina, il coraggio di negoziare non è una resa, anche al fine di evitare che la situazione ulteriormente degeneri con gli esorbitanti costi conseguenti. Personalmente condivido. Di più: mi verrebbe da osservare che a sua volta il Papa dimostra coraggio quando pronuncia parole che, nel clima bellicista che si è prodotto, sfidano il pensiero oggi dominante. Essendo egli di sicuro consapevole che tali parole avrebbero suscitato dissensi e polemiche. A mio avviso, per paradosso, lui Papa, dando prova di una ben intesa laicità. Ovvero di un pensiero critico, realistico, razionale. Mi spiego. Tra le innumerevoli reazioni critiche alle parole di Francesco ne rammento due in particolare. La prima si è appuntata sulla metafora della bandiera bianca. Ma, a seguire, si è fatto notare che tale metafora non era farina del sacco del Papa ma del suo intervistatore. Da lui solo ripresa e tradotta nell’auspicio di una cessazione delle ostilità e nell’urgenza di un negoziato. La seconda critica o più esattamente la presunta attenuante concessa al Pontefice è stata quella di chi si è affrettato a derubricare il senso del suo intervento con la classica teoria: il Papa fa il Papa, invocare e proclamare la pace fa parte del suo mestiere, ma, naturalmente, la vita reale e tantopiù la guerra non sono affar suo. Considero questa lettura la più inadeguata. Oserei dire minimizzante e quasi esorcistica. Mi ha colpito la circostanza che un osservatore informato e notoriamente incline al crudo realismo – l’opposto cioè dell’asserito ingenuo idealismo attribuito a Francesco – ovvero Lucio Caracciolo abbia formulato lo stesso giudizio. Entrambi muovendo dalla considerazione oggettiva di dati di realtà. Quattro in ispecie: la situazione nel teatro di guerra, che fa segnare il lento, progressivo prevalere dell’armata russa, prevedibilmente non suscettibile di essere ricacciata indietro; non solo l’inadeguatezza delle armi ma, più ancora, lo sfinimento delle forze militari ucraine impegnate senza sosta e senza alcun ricambio da oltre due anni con la crescente propensione a rifuggire il fronte; i contrasti tra Zelensky e i vertici militari e dentro di essi; il malcelato indebolimento di un concreto ed efficace sostegno da parte di Usa ed Europa. Le cui opinioni pubbliche e i cui governi sembrano assorbiti da dinamiche politiche interne. Fa riflettere la singolare oscillazione del più attivo tra i leader europei Macron tra disponibilità negoziale ieri e interventismo spinto oggi. Sino alla proposta di un coinvolgimento diretto nel conflitto di forze Ue, proposta subito esclusa da tutti i leader europei. Proposta certo azzardata ma, va riconosciuto, non priva di una sua logica per chi muove dall’assunto che non si possa fare vincere Putin il quale, appunto, palesemente sta vincendo sul terreno. Per dirla tutta: una doppiezza e una ipocrisia, ma, prima ancora, una contraddizione logica e politica. Dalla quale, come accennato, Caracciolo ricava la conclusione che, lungo tale china, l’esito è già scritto: altri lutti, altre distruzioni e, a seguire, un compromesso ogni giorno più sfavorevole e ingiusto per il popolo vittima di aggressione. Può dispiacere ma, ripeto, trattasi di dati di realtà. Rimuoverli non aiuta. Semmai riflette, come notavo, una certa ipocrisia, che si possono permettere solo gli osservatori comodamente distanti, non personalmente toccati dalla tragedia della guerra. Certo, non il Papa che, dal primo giorno, a dispetto dei suoi critici, ha privilegiato il punto di vista delle vittime. Tutte.
Guardando in faccia la realtà con senso di responsabilità, aggiungiamo due elementi. Il primo: invocare un negoziato è cosa diversa dalla resa. Specie se l’Ucraina può fare concreto affidamento sul sostegno della comunità internazionale. Il secondo: sin d’ora non è difficile traguardare a quale possa essere il punto di caduta: la sicurezza internazionalmente garantita dell’Ucraina e il suo ingresso nella Ue, uno statuto di autonomia per i territori contesi attraverso consultazioni trasparenti e garantite, il rientro dei profughi e un piano di ricostruzione del paese. Non è cosa semplice. Va meglio definita. Ma da quei binari difficilmente ci si può discostare. Meglio prima che dopo. Con la facile previsione che si può solo arretrare nel compromesso.
Ma, oltre all’approccio laico (nel senso accennato), il punto di vista del Pontefice può essere letto in un orizzonte meno estemporaneo, più organicamente ascrivibile all’evoluzione del magistero della Chiesa sulla pace e sulla guerra. Come è noto, essa è passata – cito solo i due estremi – dalla “dottrina della guerra giusta” (oggi suona come un ossimoro) alla tesi della legittima difesa dai confini sempre più rigorosamente circoscritti. Non è un mistero che l’ingresso nell’era atomica, cioè delle armi di distruzione di massa, abbia rappresentato un punto di svolta per il magistero. Quando Giovanni XXIII, con la “pacem in terris”, a inizio anni sessanta, si spinse a proclamare che “alienum est a ratione bellum” (la guerra è estranea alla ragione). Lo stesso “Catechismo universale della Chiesa cattolica”, che ne fissa nel modo più autorevole la dottrina “ufficiale”, enuncia con precisione le condizioni solo sussistendo le quali si può dare legittimità all’esercizio della legittima difesa. Sono cinque: che essa sia dichiarata dall’autorità legittima, che ricorra una giusta causa, che rappresenti a tutti gli effetti una extrema ratio (ovvero che si siano prima esperite tutte le vie politico-negoziali), il principio di proporzionalità (ovvero che il male inesorabilmente arrecato non sia superiore a quello cui si intente porre rimedio) e infine le “chances di successo”. Curiosamente questa ultima condizione è spesso trascurata. E invece conta nel caso in oggetto. Successo è forse parola impropria. Come si può parlare di successo con riguardo ad azioni belliche? Ma il senso mi pare chiaro a fronte di una situazione che, sulla base di fondate ragioni, può solo peggiorare. Ove il fattore tempo (Francesco lo menziona esplicitamente) non è affatto indifferente, trattandosi con certezza di un tempo carico di morti, feriti e distruzioni. Ulteriori e inutili appunto senza chances di riuscita. A ben vedere, può essere letta come la weberiana “etica delle responsabilità” che si fa carico delle concrete conseguenze. Spesso si invoca la “pace giusta”. Chi mai potrebbe eccepire? Ma attenzione: per quanto possa suonare spiacevole, per porre fine ai conflitti, spesso (sempre?), la pace in concreto possibile non è la pace integralmente giusta. Essa passa attraverso un compromesso che esige il sacrificio di qualcosa che, in punto di principio e in condizioni ordinarie, non sarebbe giusto sacrificare. Non mi si fraintenda, ma spesso la sola pace possibile è una pace che sconta qualche ingiustizia, intesa la giustizia alla lettera come “dare a ciascuno ciò che gli è dovuto”. So bene che la criteriologia fissata nel magistero della chiesa, di sua natura, sconta un indice di formalità, che quelle cinque condizioni esigono un’opera di interpretazione/implementazione con riguardo ai casi concreti, un prudenziale discernimento pratico-politico (e qui si rimanda ai fatti sopra accennati). Ma forse è il caso di non deprezzare principi e orientamenti maturati attraverso i secoli da una istituzione quale la chiesa cattolica. “Esperta in umanità”, la definiva Paolo VI, e, aggiungiamo noi, con crudo realismo, anche nel giudicare le guerre. Specie in un tempo nel quale, inatteso, si riaffaccia lo spettro dell’autodistruzione dell’umanità, che ho l’impressione i leader mondiali non prendano sul serio quale esito effettivo.
E’ perfettamente legittimo discutere il punto di vista del Papa. Osservo solo che, tra i suoi critici (non tutti), non è raro imbattersi in chi, trascorsi oltre due anni, si contenta di recitare lo stesso mantra e sembra non porsi il problema di come uscirne. Nel mentre la tragedia si incancrenisce e, sullo sfondo, sin d’ora, si prospetta non un negoziato ma una capitolazione.
(Foto di Dmitry Bukhantsov su Unsplash)
condivido appieno.
Quella del Papa, mi dispiace dirlo, è una posizione ipocrita. Quando l’Ucraina è stata aggredita dalla Russia, il Papa non ha proferito parola. Dopo qualche mese, ha cominciato a dire “pace pace pace” ma soprattutto ha polemizzato per due anni contro i paesi occidentali che mandavano armi all’ucraina (cosa consentita dal diritto internazionale, dallo Statuto ONU e dallo stesso catechismo della Chiesa cattolica, si chiama legittima difesa collettiva). Non ha mai polemizzato contro Putin. Adesso l’Ucraina, avendo ricevuto poche armi dai paesi occidentali, molto meno di quelle necessarie per difendersi, si trova in gravi difficoltà. Responsabilità anche di chi come il Papa ha detto no alle armi (no alle armi occidentali ovviamente, non no alle armi russe). Adesso il papa parla di bandiera bianca e invita gli ucraini ad arrendersi e a sottomettersi a Putin (di questo si tratta, evitiamo ulteriori ipocrisie, la frase sulla bandiera bianca l’ha detta l’intervistatore ma il papa l’ha confermata). Povero papa, povera Chiesa, poveri noi….
Evidentemente abbiamo opinioni decisamente diverse. Anche il Papa può essere criticato. Senza indulgere all’insolenza (“ipocrita”) e senza bisogno di attribuirgli posizioni che manifestamente non corrispondono alle sue in punto di fatto: non è vero che egli non abbia condannato l’invasione russa, che non abbia criticato Putin, che chieda agli ucraini di sottomettersi a lui, che abbia responsabilità – questa è francamente bizzarra – nella riduzione della fornitura di armi all’Ucraina da parte dei paesi occidentali, d’improvviso obbedienti e devoti al Papa.
Un po’ sorprende come la complessa questione della legittimità e dei limiti della legittima difesa tematizzata nell’articolo in oggetto con qualche ragionamento sia liquidata in una riga. FM
La dottrina cattolica ha sempre riconosciuto che uno Stato aggredito da un altro Stato ha il diritto di difendersi. E che altri Stati che lo aiutino a difendersi non fanno nulla di sbagliato (è un principio, quello della “legittima difesa collettiva”, che fa anche parte dello Statuto delle Nazioni Unite).
Se guardiamo al pensiero dei Padri della Chiesa, Agostino non considerava la guerra un buon sistema per appianare le dispute, e sperava che in tempi cristiani le cose potessero migliorare, ma ammetteva che ci sarebbero sempre state aggressioni ingiuste da respingere per il bene di valori cari ai cristiani. Quando le tribù del Sahara attaccarono alcuni insediamenti romani, Agostino scrisse al comandante militare cristiano esortandolo a considerare un dovere religioso la soppressione dei predoni. Agostino accettava il principio che la forza fosse legittima per l’autodifesa e per riprendersi il maltolto. Quando nell’anno 430 Ippona, la città di cui era vescovo, venne aggredita e assediata dai Vandali, Agostino non disse che bisognava arrendersi, che bisognava alzare la bandiera bianca, che bisognava cedere alla legge del più forte, che la resistenza era inutile. Agostino invece pregò Dio di liberare la città di Ippona assediata dal nemico.
In questi ultimi decenni l’aspirazione cristiana alla pace e alla giustizia si è trasformata in un equivoco pacifismo ideologico, che non ha nulla a che fare con una sincera aspirazione alla pace, ma che rappresenta un evidente cedimento al fondamentalismo pacifista, in forza del quale sparisce ogni distinzione tra aggressore e aggredito, così che fornire armi alla Resistenza ucraina significa schierarsi dalla parte della guerra e rendersi responsabili di un numero sempre maggiore di vittime civili.
Invece, come ad esempio ha scritto Mounier, uno “spirito cristiano” non può “rifiutare a priori l’uso della forza al servizio della giustizia che vi si cerca o delle comunità in cui viviamo”. “Al di fuori dei sentieri della santità integrale, il cristiano ha il dovere di resistere alla forza con la forza. Ciò che differenzia uno Stato di ispirazione cristiana è che, ad ogni conflitto, esso cercherà dapprima di far prevalere le vie della carità, esaurirà prima tutti i mezzi che non siano mezzi di guerra. Ma può arrivare il momento in cui tali mezzi si rivelano definitivamente inefficaci, per la potenza del male o per la malizia degli uomini. Allora, e allora soltanto, contornando la decisione con numerose garanzie e precisazioni, il cattolicesimo ammette la legittimità della violenza al servizio della giustizia”
Secondo Mounier, il cristiano non ha il diritto di “comprare la pace a prezzo di un accrescimento di viltà, di un ulteriore arretramento dello spirito cristiano di fronte alle forze anticristiane. In un mondo in cui certi vogliono la guerra o almeno non la escludono dai loro rimedi, rifiutare ogni azione che potrebbe comportarne il rischio significa rifiutare ogni resistenza, poiché il rischio è ovunque, salvo nell’avvilimento o nel suicidio deliberato. Questo rischio deve essere corso, facendo al contempo uno sforzo tanto più eroico per scongiurarlo. Dio deciderà del risultato”.
Mounier condanna impietosamente questo tipo di pacifismo fondamentalista, forse “il più diffuso”, che si caratterizza per “la paura bruta della morte, della sofferenza e delle percosse da parte di uomini disabituati al rischio, che non hanno più ragione di vivere né ragione di morire”. E’ il pacifismo di coloro, continua, che ”nel settembre del 1938 non avevano a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi (…) ma avevano una sola ossessione: che non si interrompessero i loro sogni di pensionato”.
Mounier distingueva con forza «il realismo cattolico» da «una certa ideologia pacifista, criticava il “pacifismo dei tranquilli”, di ricerca di “un’assicurazione contro ogni rischio”, di “un’utopia da sedentari”. Programma fondamentale ? “Tutti a casa”. E’ “l’albertosordismo”, senza il riscatto redentore finale proposto nel film di Comencini. Oggi si ripresenta sulla scena come farsa di politicanti mediocri alla ricerca di qualche voto in più alle prossime elezioni europee e amministrative. Non è la strada che i cattolici impegnati in politica dovrebbero seguire.