Il fatto è noto e significativo: nel corso del 2024 circa 4,2 miliardi di abitanti del pianeta, sono andati o andranno alle urne. Assisteremo a un corposo esercizio democratico che, forse, ci aiuterà a rispondere alla provocatoria domanda contenuta nel titolo del dell’ultimo libro di Carlo Galli: “Democrazia, ultimo atto?”. Certamente esiste la diffusa percezione di una crisi dell’ordine mondiale, rispetto a cui le democrazie appaiono in difficoltà nel produrre rapide risposte alle aspettative dei cittadini. Ciò suscita distacco (l’astensionismo talvolta è il primo partito) e attrazione per formule “forti” che si offrono con la formula di “democrazie illiberali”. Di ciò, peraltro, si parlerà diffusamente nel ciclo di incontri promosso da Città dell’Uomo, “Democrazia, oggi. Tra “stanchezze”, attacchi striscianti e progetti rigenerativi.

In questo contesto, è un fatto interessante la recente pubblicazione di un report a cura del Pew Research Center che analizza lo stato di salute delle democrazie moderne. Un poderoso lavoro empirico condotto tra i mesi di febbraio e maggio 2023 in 24 paesi del mondo ubicati in tutti i 5 continenti, già dal titolo molto esplicativo: “Representative Democracy remains a popular ideal, but people around the world are critical of how it’s working”.

Dal report risulta un quadro molto variegato, talvolta imprevedibile. I dati sono stati raccolti tra cittadini appartenenti a 24 democrazie: dagli USA all’Indonesia, passando per l’Argentina, il Brasile, la Nigeria ed Israele. Includendo, ovviamente, molti paesi dell’Unione Europea, (Olanda, Germania, Italia, Francia, Svezia, Ungheria, Grecia, Polonia e Spagna), tutti chiamati al voto per il rinnovo del Parlamento europeo nel giugno 2024.

Insoddisfatti (ma fedeli) alla democrazia

Il dato di partenza appare già degno di riflessione e potrebbe certificare la “crisi della democrazia”: il 59% degli intervistati non è soddisfatto dei meccanismi di funzionamento della “sua” democrazia, mentre addirittura il 74% (77% in Italia) pensa che gli eletti non abbiano a cuore che cosa pensino gli elettori.

Tuttavia, la democrazia rappresentativa resta il sistema di governo considerato più appetibile dagli intervistati, rispetto agli altri che il sondaggio le contrappone. La media del 77% tra tutti i paesi consultati, infatti, ritiene che sia un “buon” sistema di governo se paragonata a: (i) la democrazia diretta (“where citizens, not elected officials, vote directly on major national issues to decide what becomes law), che viene scelta dal 70%, (ii) il governo tecnico non eletto (“experts, not elected officials, make decisions according to what they think is best for the country”) che ha il favore del 58%, (iii) il governo del leader forte al potere “without interference” di Parlamento o Tribunali, scelto dal 26% e (iv) il governo dei militari, appetibile solo per il 15% degli intervistati. Particolare interessante: il governo del leader forte – opzione sub (iii) – è più apprezzato (“good way of governing the country”) negli stati analizzati aventi un PIL pro capite basso (India, Kenya, Indonesia, Sud Africa) e decisamente meno in quelli che lo hanno più alto (Svezia, Olanda, Francia). Tra i paesi occidentali con PIL alto sono UK e USA quelli ove c’è maggior favore per il governo del leader forte.

Si dirà, la democrazia rappresentativa è promossa? A leggere bene i dati, forse no. Infatti, se le alternative sono secche, la democrazia rappresentativa ne esce rinfrancata. Ma quando si domanda ai cittadini se la ritengano un sistema di governo molto buono (“very good”) per il funzionamento del paese, il dato è meno confortante. In ben 11 dei 22 Stati in cui il PeW ha svolto lo stesso sondaggio nel 2017, il dato è peggiorato. In Italia, la già bassa percentuale che considerava “molto buona” la democrazia rappresentativa è scesa dal 29% del 2017 all’odierno 23%.

Inoltre, prevale l’insoddisfazione se la domanda riguarda il grado di soddisfazione sui meccanismi di funzionamento della democrazia. La media generale di chi non è soddisfatto è del 59%, e solo in 7 Stati sui 24 analizzati prevale l’opinione di chi crede che il processo democratico funzioni in maniera soddisfacente.

I partiti politici, come se la passano?

Una media del 54% tra gli intervistati dichiara di ritenersi rappresentato da almeno un partito politico, mentre scende al 42% la media di chi pensa che non ci sia sulla scena politica nemmeno un partito in grado di rappresentarlo. Israele (73%) e Svezia (72%) sono i due paesi in cui vi è più alta la percezione di rappresentanza, mentre Argentina (35%) e Spagna (39%), sono i due fanalini di coda. Anche l’Italia è nella parte bassa della graduatoria, in quanto solo il 41% del campione si ritiene rappresentato da almeno una forza politica. Con buona pace del ruolo assegnato ai partiti dall’art. 49 della nostra Costituzione.

Risulta interessante, poi, notare come si scompone, tra i simpatizzanti delle diverse aree politiche la diversa percezione della rappresentatività dei partiti. Il report cristallizza, semplificando, nella classica tripartizione sinistra/centro/destra le aree di riferimento. Ebbene, tra i simpatizzanti di sinistra, sono il 56% coloro che si sentono rappresentati da almeno un partito (in Italia il dato scende al 46%, in Spagna, dove pure la sinistra ora è al governo, con una variegata coalizione, il dato si abbassa al 44%). A destra, la percentuale cresce: la media di chi crede vi sia almeno una forza politica in grado di rappresentarlo è del 60% (in Italia del 50%), mentre è l’area del centro che appare più carente di rappresentanza. Qui, infatti, la media generale di chi si sente rappresentato scende sino al 40% (in Italia al 31%). Il report, ancor più analiticamente, evidenzia di aver sottoposto al giudizio degli intervistati (ovviamente, ciascuno per quanto riguarda il suo paese), ben 87 partiti politici. Solo 21 hanno ottenuto un giudizio positivo.

I giovani e le donne risolleveranno (forse) la qualità della democrazia

Da dove parte la riscossa democratica? Secondo molti degli intervistati dalle donne, dai giovani (o meglio, chi il report definisce “young adults”) o dagli eletti che provengono da zone meno abbienti, i quali, forse, meglio comprendono le esigenze delle classi più svantaggiate.

Tali percentuali vengono poi scomposte – aspetto quanto mai interessante – tra gli intervistati appartenenti alle tre diverse aree politiche utilizzate dal sondaggio (sinistra/centro/destra). Qui, probabilmente, si nota la persistenza di un “gap ideologico” in merito alla considerazione che gli intervistati hanno della categoria di persone che potrebbe promuovere migliori politiche, se eletto. La differenza maggiore si consuma sulla valutazione dei membri dei sindacati (per il 43% degli elettori di sinistra migliorerebbero la situazione se eletti, mentre a destra la percentuale scende al 20%). Ma anche sulle donne e i “young adults” (rispetto a cui la percentuale di gradimento sale a sinistra sino al 59% per le donne e il 62% per i giovani) la differenza tra elettori di sinistra e destra è rispettivamente di 18 e 20 punti percentuali (in entrambi i casi a favore degli elettori di sinistra). In generale, gli elettori di destra propendono per la categoria degli imprenditori e, in parte minore, dei religiosi, quali soggetti che, se eletti, migliorerebbero le politiche nazionali.

Quattro ricette per migliorare la democrazia

Infine, una domanda secca è stata posta agli intervistati: cosa aiuterebbe a migliorare il processo democratico?

Qui, le risposte sono variegate, ma opportunamente raggruppate in sede di elaborazione del report. Vengono riassunte in quattro filoni, tutti significativi.

Il primo: la qualità dei leader. La ricetta è riassumibile in maggiore preparazione, maggior legame – in termini di età, ceto sociale e sesso – con la maggioranza della popolazione dello Stato che si rappresenta (un avvertimento per Biden?), meno corruzione.

Il secondo: riforme istituzionali in grado di efficientare i processi democratici. Il principio è probabilmente incontrovertibile, le modalità attuative non sono declinate, in quanto, dice il report che “Views about what reform should look like vary considerably”.

Il terzo: aumento della cittadinanza attiva. Solo grazie a cittadini informati, rispettosi della legalità, desiderosi di farsi coinvolgere nelle decisioni della propria comunità, la democrazia migliora. Aspetto, questo, quantomai interessante che fa ben comprendere come non esista la democrazia senza partecipazione.

Il quarto: la ripresa economica. La percezione, in questo caso, è quella di un legame bi-univoco tra salute della democrazia e ripartenza economica. Se crescono investimenti e posti di lavoro e si abbassa l’inflazione, ecco che anche la politica è meglio in grado di destinare le risorse pubbliche e combattere le diseguaglianze.

Crediti foto: Phil Scroggs su Unsplash

  • Martino Liva

    Avvocato, consigliere dell’associazione di Città dell’uomo e coordinatore del Comitato dei sostenitori della Fondazione Ambrosianeum.