La discussione sui temi del fine vita si affaccia periodicamente nel dibattito pubblico e politico, soprattutto quando fatti di cronaca la riportano in primo piano, ma soffre di un approccio spesso superficiale o ideologico ben lontano dalla necessità di serietà e profondità che merita.

La materia oggi è regolata dalla legge 219 del 2017 che, dopo un acceso dibattito parlamentare, disciplinò il diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari, il divieto di accanimento terapeutico, e la sedazione palliativa profonda quale modalità di accompagnamento alla morte di un malato terminale.

Con la famosa decisione sul caso Cappato del 2019 la Corte Costituzionale ha stabilito che quella disciplina non è sufficiente, perché non tutela adeguatamente il diritto all’autodeterminazione e a una morte dignitosa, e ha dichiarato incostituzionale il divieto di aiuto al suicidio quando concorrano condizioni di particolare gravità patologica e intensa sofferenza.

La Corte ha stabilito dunque che, in quei casi particolari, chi aiuta taluno a togliersi la vita non può essere punito, e ha concluso invitando il legislatore a intervenire per disciplinare compiutamente le condizioni di accesso a tale facoltà e le modalità della loro verifica.

Il primo punto fermo che ne deriva è che il suicidio assistito, cioè la possibilità per malati che si trovino in certe condizioni di particolare gravità e sofferenza di chiedere di essere aiutati a togliersi la vita – che è cosa molto diversa dall’eutanasia, ovvero l’atto di togliere la vita a una persona che lo chieda – è già oggi possibile, è già entrato a pieno titolo nel nostro ordinamento giuridico.

Tanto è vero che periodicamente gli organi di stampa danno conto di richieste che vengono inoltrate ai servizi sanitari regionali, o azionate a mezzo di uffici giudiziari, da persone che ritengono di rientrare in quelle condizioni, e chiedono di essere assistite e aiutate a compiere il gesto finale.

Nell’assenza di una normativa di cornice nazionale le singole aziende sanitarie locali però brancolano nel buio, si muovono con linee guida autonome, spesso senza alcuna indicazione procedurale e operativa, lasciando nella più completa incertezza operatori, medici, infermieri, pazienti.

Per questa ragione, per evitare cioè che gli effetti di quella sentenza generassero le incertezze interpretative, le disparità di trattamento, gli interventi inevitabilmente parziali e non uniformi dei tribunali cui oggi assistiamo, nella scorsa legislatura si fece lo sforzo di provare a dare una disciplina compiuta a questa novità così rilevante per il nostro ordinamento giuridico a mezzo di una legge, della quale fui relatore alla Camera, che dopo una lunghissima istruttoria e una faticosa gestazione venne alfine approvata in prima lettura nel marzo del 2022, ma non giunse al traguardo definitivo per la prematura caduta della legislatura.

Quella legge, che ho riproposto in identico testo in questa legislatura, pur essendo ovviamente ben lontana dalla perfezione era il frutto di una lunga e approfondita discussione, ed aveva alcune caratteristiche che vale la pena sottolineare.

Intanto era rispettosa del dettato della Corte Costituzionale.

Si era tentato cioè di tradurre in normativa completa e compiuta quei principi posti dalla sentenza della Corte, che aveva individuato una strada da percorrere nel faticoso equilibrio tra esigenze e valori apparentemente difficili da conciliare.

Da un lato, il diritto alla vita e alla sua tutela piena e incondizionata, principio ineludibile e fondante del nostro ordinamento democratico, vorrei dire della nostra comunità civile, che non può trovare eccezioni fondate su una presunta differenza di qualità della vita, e che trova la sua declinazione più compiuta nella necessità di cura, assistenza, vicinanza alle persone in stato di sofferenza.

D’altro lato, il diritto all’autodeterminazione delle persone che si trovano in stato di grave sofferenza, il diritto a una morte dignitosa, che è figlio di un principio liberale che le istituzioni non possono disconoscere.

Due principi entrambi da tutelare, che non possono diventare soverchianti l’uno sull’altro, perché la nostra costituzione si fonda su una cultura personalista, non quindi statalista o paternalista, né individualista o libertaria.

La Corte costituzionale, con una sentenza molto articolata e, mi si dice, condivisa all’unanimità, ha individuato il punto di incontro tra questi principi nel riconoscimento di uno spazio di liceità dell’aiuto al suicidio nel caso di persone maggiorenni in condizioni di particolare gravità di patologia e di intensa sofferenza, interamente capaci di prendere decisioni libere e consapevoli, e a valle di un percorso di cure palliative e terapie del dolore che diano conto di una adeguata tutela del principio solidale che informa la nostra carta costituzionale.

Condizioni ovviamente tutte da accertare con particolare rigore e accuratezza, e che sono state poste per arginare il rischio che dietro una richiesta apparentemente libera e consapevole di aiuto al suicidio si celi in realtà un condizionamento.

Non sarebbe infatti accettabile e tollerabile un suicidio di fatto “normalizzato” o sterilizzato nelle sue implicazioni etiche, che finisse per esercitare una forma di pressione sociale su persone anziane malate e sole, e tantomeno che il suicidio diventasse l’unico modo per sottrarsi a una condizione di sofferenza, in un paese che fatica a garantire adeguate terapie palliative o del dolore.

Al rispetto quanto più rigoroso possibile di questo stretto perimetro individuato dalla Corte ha cercato di attenersi il mio testo di legge, nella convinzione che in esso si potesse trovare quel terreno comune che, su materie così delicate e complesse, è opportuno ricercare al di là e oltre ogni semplificazione e schematismo anche ideologico.

E non per caso infatti su quel testo si ritrovò l’intero gruppo del Partito Democratico, sostenuto dal partito allora retto da Enrico Letta, che votò compattamente nonostante vi fossero punti di partenza divergenti e differenze di vedute, proprio perché si riconobbe che lo sforzo di mediazione aveva consentito di raggiungere un risultato non disprezzabile.

Ora ci troviamo in uno stallo, dentro il quale si sono insinuate le iniziative legislative regionali, innescate dall’associazione Luca Coscioni, che ha presentato in tutte le regioni identici testi di iniziativa popolare, e che hanno trovato l’adesione anzitutto del governatore leghista del Veneto Zaia, a riprova di quanto il tema sia sentito in modo trasversale.

Iniziative che certamente hanno il merito di riportare all’attenzione del dibattito pubblico la questione, ma che scontano due grandi limiti, a mio avviso.

Il primo riguarda proprio l’idea di portare a livello regionale la disciplina legislativa, col rischio di una frammentazione normativa che pregiudicherebbe l’uniformità e l’omogeneità di trattamento su base territoriale, in una materia che non tollera invece differenze.

Il secondo limite attiene al testo presentato che, pur richiamando le condizioni poste dalla Corte costituzionale, prevede una procedura piuttosto scarna e semplificata di verifica delle condizioni, omette il richiamo alle cure palliative, trascura di confrontarsi col tema dell’obiezione di coscienza.

Per queste ragioni non penso sia una buona idea assecondare le iniziative regionali, e ritengo invece si debba tornare a sollecitare una discussione in parlamento, che oltre tutto offre il vantaggio di poter partire da un testo già condiviso, figlio di un lavoro accurato e serio che sarebbe incomprensibile accantonare.

Non so se la cosa sarà possibile, perchè l’attuale maggioranza appare indisponibile ad affrontare un tema che non solo rischia di aprire un confronto interno serrato al suo interno, ma che potrebbe essere osteggiato da alcuni ambienti ai quali una parte della destra è molto attenta e sensibile.

Ciò che so per certo, avendone contezza quando mi capita di parlarne in pubblico, è che l’opinione pubblica è molto attenta al tema, e che le distinzioni tra guelfi e ghibellini, tra laici e cattolici, tra destra e sinistra cadono miseramente dinanzi alle esperienze dolorose che tante famiglie vivono o hanno vissuto.

So anche che non potrà continuare a lungo una anarchia procedurale e una incertezza normativa destinate a produrre una pressione che il legislatore finirà prima o poi per non poter più ignorare.

E resto convinto che con approccio sensibile e cauto, serio e rigoroso, sia possibile misurarsi in parlamento alla ricerca di una mediazione alta, magari a partire proprio dall’esito di quel lungo e faticoso lavoro e confronto della scorsa legislatura che si trova nel disegno di legge da me riproposto al Senato.

(Foto di Alexander Grey su Unsplash)

  • Alfredo Bazoli

    Alfredo Bazoli, avvocato, 53 anni, senatore del Partito democratico, capogruppo in commissione giustizia e in giunta delle autorizzazioni.