Le prossime elezioni europee definiranno la composizione della IX legislatura del parlamento europeo da quando è stato introdotto, nel 1979, il sistema delle elezioni dirette. In questi 45 anni il quadro internazionale è, ovviamente, radicalmente cambiato. La fine della Guerra fredda, la definitiva scomparsa della proposta politica comunista come alternativa credibile al sistema capitalistico occidentale, l’esplosione della cosiddetta globalizzazione neoliberista, l’emergere della minaccia terroristica seguita ad un nuovo protagonismo del mondo islamico, le drammatiche urgenze poste dal cambiamento climatico sono solo alcuni aspetti del nuovo mondo globale del terzo millennio. Da quelle prime elezioni dirette l’Europa è cambiata con altrettanta radicalità: la nascita dell’UE con Maastricht nel 1992 ha avviato un processo del tutto nuovo che ha portato all’attuale configurazione dell’Europa di Lisbona, con il trattato entrato in vigore nel 2009.

Il livello di integrazione raggiunto non ha comparazioni con il passato. Oggi le decisioni prese a livello comunitario hanno un’incidenza notevolissima su larga parte delle attività che riguardano i cittadini europei. E l’UE è inevitabilmente centrale nelle riflessioni e nelle azioni di qualsiasi Stato membro, ponendo vincoli e quadri regolatori all’interno dei quali operare e offrendo, al contempo, possibilità e risorse altrimenti indisponibili. Le crisi degli ultimi anni sono state generatrici di forte opposizione (dalla crisi dei debiti sovrani sino alla Brexit) ma anche di una inedita nuova propulsione (si pensi soprattutto al piano di contrasto alla pandemia di Covid-19, il Next Generation EU, ma anche al Green Deal). È emerso in modo inequivocabile che dal modo in cui vengono affrontate le crisi dell’integrazione e nell’integrazione dipende la solidità della costruzione europea, la sua capacità di tenuta e le possibilità di sviluppo. Tenendo conto, mi pare di poter dire, che l’obiettivo fondamentale in questi anni sia soprattutto conservativo, cioè di resistenza ai processi di disgregazione.

Anche dal confronto con il quadro internazionale di appena cinque anni fa emergono novità radicali che hanno cambiato gli scenari nazionali, europei e globali. Dopo la drammatica fase della pandemia, l’UE ha dovuto inevitabilmente confrontarsi con la rapida evoluzione del contesto mondiale. La guerra russo-ucraina iniziata esattamente due anni fa nel febbraio del 2022 e quella mediorientale in corso dall’ottobre 2023 sono i due conflitti (tutt’altro che unici ed isolati) che più incidono nell’opinione pubblica europea ed occidentale condizionando non poco, in prospettiva, anche la campagna elettorale per le europee.

Nelle ultime elezioni del 2019, la configurazione complessiva del PE aveva visto le tre grandi famiglie politiche tradizionali (popolari, socialisti e liberali) ancora maggioritarie. I tre gruppi, che incarnano l’evoluzione delle principali culture politiche che hanno segnato la storia dell’integrazione europea, rappresentano ancora oggi la maggioranza del parlamento, raccogliendo 419 seggi sugli attuali 705 (poco meno del 60%). Una percentuale in calo rispetto al 2014, ma, tutto sommato, un calo contenuto (circa il 4%) grazie alla crescita dei liberali che ha parzialmente compensato la perdita di circa il 5% dei voti sia dei popolari che dei socialisti. Il calo è però impressionante in una valutazione di più lungo periodo. Limitandoci agli ultimi venti anni, le tre grandi famiglie politiche europee sono passate da rappresentare i tre quarti del PE – sia nelle elezioni del 2004 (con il 75% dei consensi) che del 2009 (72%) – all’attuale dato che li pone sotto il 60%. Al contrario è cresciuto, com’è noto, il consenso relativo alle destre, tendenzialmente antieuropeiste o euroscettiche (che, è bene precisarlo, non sono necessariamente sinonimi). In questo caso, i gruppi, che hanno cambiato nel tempo nome e composizione, sono passati da un 8,6% del 2004 (aumentato a 11,6% cinque anni dopo) al 18% raggiunto nelle elezioni del 2019.

Per capire come si sta orientando la campagna elettorale che porterà al voto di giugno, occorre necessariamente partire da qui. Il trend del calo di consensi relativo ai tre gruppi maggioritari è infatti ampiamente confermato dalle intenzioni di voto sin qui disponibili. In uno studio condotto a fine gennaio scorso dallo European Council Foreign Relations (curato da alcuni tra i maggiori studiosi del sistema partitico europeo), la nuova composizione del PE vedrebbe una somma tra popolari, socialisti e liberali intorno al 54% (altri 5 punti percentuali perduti) mentre le destre di Identità e democrazia (ID) e Conservatori e riformisti europei (ECR) andrebbero oltre il 25% (esattamente 98 seggi a ID e 85 a ECR sui 720 disponibili). A completare il quadro dei sette gruppi attualmente esistenti, i verdi (Green/EFA) vedrebbero un calo di circa 10 seggi a cui corrisponderebbe un lieve aumento di qualche seggio per la sinistra (Left). In questi ultimi due casi, non sono presenti rappresentanze italiane né, al momento, i sondaggi indicano il superamento della soglia del 4% che prevede la legge elettorale italiana per le prossime elezioni (per quanto l’ultimo sondaggio dell’Istituto demoscopico Noto registra una vicinanza alla soglia sia per l’alleanza verdi/sinistra che per +Europa).

Naturalmente, occorre considerare che questi dati rappresentano un orientamento registrato a mesi di distanza dal voto e con una campagna elettorale non ancora entrata nel vivo. Il dato di lungo periodo è però inequivocabile: le confederazioni dei partiti tradizionali – pur con i mutamenti di composizione e di linea politica avvenuti nel corso dei decenni – vedono la progressiva erosione del proprio consenso a vantaggio soprattutto delle destre estreme, mentre la sinistra rimane sostanzialmente marginale e con i Verdi che galleggiano intorno al 10% nonostante la questione ambientale costituisca una delle voci prioritarie dell’agenda politica europea e mondiale. A dispetto delle ingenti risorse messe a disposizione con il Next Generation EU, le forze critiche dell’establishment di Bruxelles aumentano in modo estremamente significativo.

Le considerazioni fatte in merito alle famiglie politiche tradizionali non intendono, naturalmente, indicare una consonanza di vedute sull’UE e le politiche da essa adottate. Con un PPE spostatosi nel corso dei decenni sempre più sul versante conservatore – perdendo progressivamente quella matrice democratico-cristiana che lo collocava al centro dello spettro politico – anche la visione europeista (cioè, la prospettiva di integrazione politica ed istituzionale) ha subito delle parziali modificazioni. Le distanze tra il gruppo socialista e quello liberale non sono meno significative e marcate. La stessa coalizione che ha sostenuto la commissione guidata da Ursula von der Leyen dimostra che, seppur all’interno di una convergenza politica sul suo nome, i gruppi non si sono mossi in modo compatto, assegnando alla commissione una maggioranza tutt’altro che ampia.

Questo aiuta a capire le strategie messe in atto dalla stessa von der Leyen che ha recentemente annunciato la sua ricandidatura. Un annuncio per ora limitato al suo partito, la CDU tedesca, ma che dovrebbe essere confermato dal congresso elettorale del PPE che si terrà a Bucarest il 6-7 marzo prossimi. Le maggiori insidie per l’attuale unica candidata si nascondono – neanche tanto, a dire il vero – all’interno dello stesso PPE. Il suo connazionale e collega di partito nonché presidente del gruppo, Manfred Weber, ambisce infatti alla delineazione di una nuova e diversa coalizione. Sostenendo lo slittamento sempre più marcato verso posizioni conservatrici del PPE, Weber punta all’alleanza con le destre in crescita. Una prospettiva complicata, sia sul piano politico perché le destre sono tra loro non facilmente assimilabili in un’unica coalizione, sia sul piano parlamentare perché la maggioranza assoluta non sarebbe comunque semplice da raggiungere. Stessa difficoltà ha comunque di fronte la presidente della commissione, la quale difficilmente potrà contare sulla medesima maggioranza che oggi la sostiene, tenendo conto anche del calo di numeri che si prevede per i partiti di una coalizione che presenta una sua strutturale fragilità, direi sempre inevitabile nella formula della Große Koalition.

Per questa ragione Ursula von der Leyen sta da tempo corteggiando un partito come Fratelli d’Italia, contando su una relazione diretta con Giorgia Meloni. Un’operazione non semplice, per varie ragioni. Nello scenario che probabilmente si annuncia nel dopo voto, FdI sarà il partito centrale del gruppo dei Conservatori e riformisti europei (similmente a ciò che ha rappresentato la Lega nel gruppo Identità e democrazia dopo le elezioni del 2019). La strategia di von der Leyen – centrata sulle politiche di sostegno ad Ucraina ed Israele, su una linea pro-Nato e sulla delicata questione della difesa europea – presuppone però una divisione interna al gruppo, con singole delegazioni nazionali pronte a votare la sua rielezione. La presidente del consiglio italiana dovrebbe, dunque, orientare le proprie posizioni in modo autonomo dal gruppo di cui, probabilmente, avrà la leadership. Un’ipotesi tutta da verificare, ovviamente, che presenta molte criticità ma che è tutt’altro che da scartare. Tuttavia, le preoccupazioni principali per Meloni vengono dal fronte interno. Come sempre, le elezioni europee si giocano su un terreno non solo continentale ma – e direi ancora in larga parte – nazionale. Le tensioni interne al governo italiano manifestatesi in diversi ambiti, non ultimo la vicenda dei mandati per sindaci e presidenti di regione, si proiettano anche sul versante europeo. Un sostegno ad un bis di von der Leyen, non ipotizzabile come un’alleanza PPE-ID-ERC (posizione, invece, come detto caldeggiata da Weber), significherebbe una coalizione variegata con almeno un parziale consenso di partiti presenti nei gruppi socialisti e liberali. Una posizione che offrirebbe il fianco alle critiche della Lega, tutta protesa a sfidare a destra FdI per recuperare parte di quei voti perduti nelle elezioni italiane del 2022. La vicenda della mancata ratifica del Mes è stata, sotto questo profilo, un’istruttiva esemplificazione delle dinamiche in campo e dei reciproci condizionamenti. Ciò considerato, è molto probabile che un eventuale appoggio di FdI ad un bis della attuale presidente della commissione avvenga solo ad elezioni concluse.

Nell’ultimo citato sondaggio dello European Council Foreign Relations, i due partiti della destra italiana si scambierebbero di fatto i seggi, con FdI che passerebbe dagli attuali 9 (che erano 6 dopo le elezioni) a 27 seggi, mentre le Lega scenderebbe dagli attuali 22 (già in sensibile calo, visto che il voto gliene aveva assegnati 29) a soli 8 seggi. Gli stessi 8 che si troverebbe ad avere Forza Italia. Uno scenario che segnerebbe la sconfitta della linea Salvini ed aprirebbe, probabilmente, una fase di rinnovamento all’interno della Lega. La strategia piuttosto aggressiva del ministro delle Infrastrutture si spiega, credo, principalmente sulla base di questi dati.

Un profilo ancora piuttosto basso stanno tenendo le forze a sinistra dello scacchiere politico italiano. Al netto delle difficoltà dei partiti minori a superare lo sbarramento del 4%, il PD sembra incapace di riprendere slancio, sotto la guida di Elly Schlein. Le intenzioni di voto al momento sotto la soglia psicologica del 20% (sostanzialmente in linea con i risultati delle ultime politiche) ridurrebbero la presenza al PE di circa 5 seggi, al cospetto di un M5s – competitivo nella contesa dei consensi all’interno del centrosinistra – attestato intorno ad un non banale 18% (che lo porterebbe ad avere un solo seggio in meno rispetto al PD). Un pareggio di fatto che segnerebbe, anche qui, la sconfitta di una strategia di rilancio del partito democratico alla ricerca di consensi perduti alla sua sinistra e già mutilato alla sua destra dalle scissioni di Italia Viva e Azione, che sommati potrebbero coprire il 7-8% dei seggi parlamentari.

La discussione sulle candidature dei leader – puramente formali e con qualche problema tecnico (si pensi alla questione sollevata dalle donne del PD che si troverebbero danneggiate da un’eventuale candidatura di Schlein) – appare non solo un po’ paradossale dal punto di vista politico, considerati i molti delicati temi nell’agenda dell’UE, ma anche di scarso peso elettorale. Ad eccezione di FdI, in cui la candidatura di Meloni potrebbe portare – stando ai sondaggi dell’Istituto Noto – un 2,5% in più, negli altri casi il margine di miglioramento sarebbe davvero esiguo (al massimo un punto percentuale, ad esempio, nel caso del PD).

In sintesi, mi pare si possa dire che, al momento, le tematiche europee restano largamente ai margini, con eccezioni dettate soprattutto da proteste contingenti, come nel caso delle politiche agricole. Prioritarie appaiono le questioni relative alle alleanze – la maggioranza che potrebbe o meno sostenere il bis di Ursula von der Leyen – o al rilancio di singoli partiti (la Lega, il PD, il M5s) alla ricerca di una rivincita dopo le elezioni nazionali del 2022. Una campagna elettorale, dunque, che aspetta di sbloccarsi ed entrare nel vivo, al fine di proporre agli elettori visioni competitive dell’Europa e delle soluzioni da dare alle molte drammatiche sfide del presente.

(Foto di Guillaume Périgois su Unsplash)

  • Paolo Acanfora

    Professore di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e responsabile dell'Ufficio Italiano dell'ECPD (Centro Europeo per la Pace e lo Sviluppo).