Nell’attualità politica segnata dal dibattito sull’autonomia differenziata, vari gli interventi sulla regolamentazione del suicidio medicalmente assistito da parte delle Regioni. In ordine sparso. Vuoi con iniziative legislative, vuoi con istruzioni tecnico-operative. Potremmo dire, parafrasando, una sorta di regionalismo differenziato anticipato su un tema eticamente sensibile. Che non coinvolge solo riflessioni bioetiche ma che inerisce a diritti fondamentali costituzionalmente tutelati.
In Lombardia, l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale ha approvato l’ammissibilità della legge regionale di iniziativa popolare, presentata dall’associazione Luca Coscioni. L’iter prevede la discussione in Commissione e poi in Consiglio regionale. In Veneto, invece, il Consiglio regionale non ha approvato il progetto di legge di iniziativa popolare. Rinviandola alla Commissione salvo ridiscuterne alla prossima legislatura regionale. In Emilia-Romagna la Giunta regionale ha promosso un documento sulle istruzioni tecnico operative per la verifica dei requisiti previsti dalla sentenza della Corte Costituzionale (n. 242/2019) e delle modalità applicative.
In Puglia, la giunta regionale ha adottato nel gennaio 2023 delibera in cui ha elencato le Linee Guida da seguire per valutare le richieste. Stabilendo altresì che le strutture sanitarie “sono tenute ad attuare” la sentenza della Corte. In Toscana, a sua volta, la Commissione regionale di Bioetica della Regione Toscana ha approvato nel 2020 un parere e, successivamente, nel 2021 l’ASL Nord Ovest ha definito la procedura a cui si è fatto ricorso per la prima richiesta di suicidio medicalmente assistito in Toscana.
Comunque, costanti i richiami alla sentenza (n.242/2019) della Corte. In cui si esplicita, ed è opportuno ricordarlo, che “il diritto alla vita è il primo dei diritti inviolabili dell’uomo”, da cui “non può derivare il diritto a rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire.” Inoltre, altro aspetto non secondario, la Corte si esprime chiaramente nel “ribadire con vigore l’auspicio che la materia formi oggetto di sollecita e compiuta disciplina da parte del legislatore, conformemente ai principi.” Altrimenti inevitabili, come accade, i diversi interventi e applicazioni amministrative in supplenza da parte delle Regioni.
Premesso che il suicidio medicalmente assistito non rientra nelle prerogative dell’autonomia regionale, risultano evidenti molteplici criticità in mancanza di una legge parlamentare. Tra le quali, ad esempio, la controversia circa l’esercizio di diritti fondamentali o le interpretazioni estensive date ai criteri fissati dalla Corte. Questi ultimi, finalizzati a evitare rischi di abuso nei confronti di persone specialmente vulnerabili.
Vale a dire persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli. La verifica delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio deve restare peraltro affidata – in attesa della declinazione che potrà darne il legislatore – a strutture pubbliche del Servizio Sanitario Nazionale, cui spetterà altresì verificare le relative modalità di esecuzione che dovranno essere evidentemente tali da evitare abusi in danno di persone vulnerabili, da garantire la dignità del paziente e da evitare al medesimo sofferenze. Sempre la Corte, vista la delicatezza del valore in gioco, richiede l’intervento di un organo collegiale terzo, munito delle adeguate competenze, il quale possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità. Nelle more dell’intervento del legislatore, tale compito è affidato ai Comitati Etici territorialmente competenti.
Il ricorso alle cure palliative e l’obiezione di coscienza del personale sanitario, tra i diversi ambiti che richiedono una particolare considerazione.
La Corte definisce le cure palliative come “un prerequisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente.” L’assoluta necessità di cure palliative e terapie del dolore è evidenza riconosciuta, come ribadito dal Comitato Nazionale per la Bioetica nei Pareri su “Riflessioni bioetiche sul suicidio medicalmente assistito” e “Cure palliative”. In una recente ricerca pubblicata su Population and Development Review, si rileva che dove vengono messe in atto le cure palliative, il ricorso al suicidio assistito o all’eutanasia cala drasticamente. Eppure, solo il 36% delle persone con cancro ha accesso alle cure palliative in Italia. Che comunque dovrebbero essere estesamente disponibili anche per molte altre situazioni come nelle patologie neurodegenerative. Nel complesso delle cure palliative si offre una indispensabile assistenza a livello sociale, psicologico e spirituale. Eliminare il dolore e la sofferenza significa civiltà nella cura. È un obbligo etico-sociale. È politica della cura. “Perché dove non c’è cura non c’è democrazia.”
Ma quanti Hospice ci sono in Italia? Qual è la distribuzione regionale? Secondo Federazione Cure Palliative la più alta concentrazione di strutture è localizzata nelle regioni del Nord e del Centro. Nelle Regioni del Sud e nelle isole i posti letto disponibili per i malati terminali sono appena il 16,2% di tutti i posti letto italiani. Ciò significa diseguaglianze e diritto alla tutela della salute difformemente garantiti. Eppure con il DPCM del 2017 si provvedeva alla definizione e all’aggiornamento dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), caratterizzando le cure palliative e la terapia del dolore con un approccio orientato alla presa in carico e al percorso di cura, distinguendo gli interventi per livelli di complessità ed intensità assistenziale. Prevedendo l’offerta di cure a domicilio, ospedali e Hospice.
Nell’ultima legge di Bilancio è stato previsto un miglioramento per l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore con la previsione di garantirle al 90% della popolazione interessata entro il 2028.
Altro tema che la Corte rimanda al legislatore è quello dell’obiezione di coscienza del personale sanitario. Richiamando esplicitamente che non c’è alcun obbligo e “resta affidato alla coscienza del singolo medico scegliere se prestarsi, o no, a esaudire alla richiesta del malato”. L’obiezione di coscienza è un diritto costituzionalmente tutelato e riconosciuto dal nostro ordinamento. È un diritto umano fondamentale. Una tutela della propria libertà nell’esercizio della medicina.
Le Regioni intervengono con provvedimenti amministrativi affermando l’assenza di obbligatorietà per il personale sanitario, pur senza poter assicurare alcuna garanzia sul piano delle eventuali responsabilità. Bisogna infatti tener conto che si tratta di materia particolarmente sensibile per il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali del cittadino in cui vige il principio di riserva assoluta di legge.
Pur tralasciando altri e non secondari aspetti inerenti al suicidio medicalmente assistito, eticamente e giuridicamente sensibili, si evidenziano palesemente le criticità del regionalismo differenziato sul fine vita. Un quadro confuso, frammentato. Appunto, differenziato come già dice in sé. Ritorna, coinvolgente e condivisa, la riflessione di Don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli. “Che il Vangelo e la Costituzione, in questo tempo complesso e difficile, che chiede la generosità e l’impegno politico di tutti, ci tolgano il sonno, rendano inquieti i nostri riposi, divengano un peso sulla nostra coscienza, fino a quando ogni riforma e ogni legge, anche la più piccola, non sia orientata al bene di tutti, iniziando dai più fragili, che un giorno scopriremo essere la cosa più preziosa che ci era stata data in dono dalla vita, la culla più adatta alla nascita di una comunità rinnovata, fondata sulla solidarietà, sulla giustizia, sulla pace.”
Crediti foto: insung yoon su Unsplash