Nel 1944 il giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, riparato negli Stati Uniti, scrisse il libro Axis Rule in Occupied Europe e introdusse la definizione di ‘genocidio’, che fu alla base della successiva Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, approvata dall’ONU il 9 dicembre 1948 ed entrata in vigore il 12 gennaio 1951. Essa precisava che

«Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

a) uccisione di membri del gruppo;

b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;

c) il sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;

d) misure miranti a impedire le nascite all’interno del gruppo;

e) trasferimento forzato di bambini del gruppo a un altro gruppo» (art. 1)» (testo originale recuperabile in https://www.un.org/en/genocideprevention/genocide-convention.shtml).

Come si vede, nella Convenzione non si citavano i “gruppi politici” e ciò per espressa volontà dell’Unione Sovietica, la quale temeva che ciò potesse costituire un’arma propagandistica nelle mani dell’Occidente.

Nel corso dei decenni successivi si parlò poco di genocidi, anche per la generale rimozione di quanto era avvenuto in Europa durante la II guerra mondiale. Fu il celebre processo Eichmann a riproporre con forza la tragedia della Shoah, che divenne centrale per l’opinione pubblica israeliana e mondiale. Dovettero però passare altri decenni per rendere sempre più diffuso l’uso della definizione di “genocidio”. Ciò avvenne sotto l’impatto di quanto stava avvenendo in Cambogia (1975-1979) e soprattutto in Bosnia (1992-1995) e in Rwanda (1994).

In tal modo, la constatazione e l’accusa di “genocidio” assunsero il carattere di un’accusa pesantissima, senza possibilità di assoluzione: il massimo dell’ignominia. Contemporaneamente si colsero le valenze politiche e propagandistiche dell’accusa, che poteva essere utilizzata per delegittimare uno Stato o un regime, trasformandolo – almeno nelle intenzioni – in un “paria” della comunità mondiale. L’accusa di “genocidio” è così diventata strumento della lotta politica: si pensi alla questione del genocidio armeno (Metz Yeghern) e all’impatto di questo tema sulle relazioni tra l’Europa e la Turchia; oppure al dibattito aperto sull’applicabilità del termine ‘genocidio’ all’Holodomor, ovvero lo sterminio di milioni di contadini ucraini sradicati dalla loro terra a causa della politica di Stalin anche attraverso una carestia ‘pianificata’ (1932-1933). Il genocidio subito è entrato a far parte della stessa identità nazionale, in contrapposizione a quella altrui. Il ricordo dell’Holodomor permea l’avversione ucraina alla Russia, così come la memoria della Shoah aiuta (in parte) a spiegare la violenza della reazione israeliana all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre 2023.

Non si deve tuttavia dimenticare che l’acquisizione del concetto di genocidio contiene in sé altre conseguenze, per esempio, sul piano economico, quello delle riparazioni e degli indennizzi ai superstiti o ai loro eredi. Ciò è valso soprattutto per le vittime della Shoah, risarcite in termini monetari dalla Repubblica Federale di Germania, che contestualmente però, ha rifiutato di prendere in considerazione analoghi interventi in favore dei rom e dei sinti, ugualmente colpiti dal Terzo Reich con misure di sterminio generalizzato (Porrajmos).

L’evidenza degli avvenimenti – anche laddove sotto gli occhi di tutti – non ha comportato peraltro riconoscimenti immediati. Valga per tutti l’esempio dello spaventoso genocidio rwandese del 1994, operato dalla popolazione hutu ai danni di quella tutsi, di fronte ai quali si esitò a usare la definizione di “genocidio”, cosa che avrebbe comportato l’urgenza di un intervento internazionale, anzitutto dell’ONU e degli Stati Uniti di Clinton. In questo caso, la voce di Giovanni Paolo II (27 aprile e 15 maggio 1994), che parlò esplicitamente di genocidio in atto, rimase isolata.

Da allora, però, quasi ogni atto di guerra e ogni conseguente massacro di civili è finito catalogato come genocidio. Sia in termini di attualità sia retrospettivamente. In molti casi risalta l’intenzione di sfruttare questa o quella vicenda in termini di propaganda politica. L’estensione del concetto, tuttavia, non facilita e rischia di obnubilare l’analisi, facendo perdere di vista le specificità dei singoli casi. Uno studio comparato dei genocidi e dei massacri del Novecento fa risaltare davvero l’unicità della Shoah, sia per le sue connessioni con la precedente millenaria storia europea, sia per la radicalità del progetto nazista, programmaticamente volto a sterminare tutti gli ebrei esistenti sulla terra, a differenza degli altri genocidi, nei quali i genocidari puntavano a cancellare il gruppo considerato nemico soltanto dal territorio nazionale. Si comprende quindi la persistente preoccupazione ebraica di veder assimilata la Shoah a ogni altro episodio del genere. E, soprattutto, il rifiuto netto di veder assimilata la politica di Israele verso i palestinesi a quella di Hitler verso gli ebrei stessi.

A oggi, con maggiore o minore convinzione, gli studiosi considerano veri e propri genocidi quelli commessi dai colonizzatori tedeschi ai danni delle etnie herero e nama nell’Africa del Sud-Ovest (oggi Namibia), agli inizi del Novecento; poi i citati Metz Yeghern, Shoah, Porrajmos. Già più controversa è la questione dell’Holodomor, anche se un certo consenso sembra essersi costituito; più diffusa è l’acquisizione dell’«autogenocidio» della Cambogia, nonché dei casi di Timor Est, Rwanda e Bosnia, per non parlare delle politiche di sterminio delle popolazioni indie in paesi come il Guatemala. Ancora da approfondire le politiche svolte ai danni delle popolazioni aborigene in Australia o verso i rom in paesi “civili” quali la Svezia e la Svizzera (e altri), segnate dalla sottrazione dei figli ai legittimi genitori o anche da interventi di sterilizzazione delle donne. Tornando indietro nel tempo, va da sé, il quadro si estende – per citare il solo XIX secolo – allo sterminio sistematico delle popolazioni native del Nord America o di altre aree del mondo sottoposto all’espansionismo occidentale.

L’invito, dunque, è quello di essere particolarmente prudenti nel maneggiare definizioni che, dal campo storico-giuridico, rischiano di scivolare immediatamente in quello polemico-propagandistico. Per stare all’attualità, la brutale aggressione russa nei confronti dell’Ucraina non può essere schedata tra i genocidi in atto, così come la reazione israeliana nella striscia di Gaza. Per quanto possa apparire un ragionamento astratto, se non addirittura cinico, il numero complessivi dei morti e delle distruzioni che si registrano quotidianamente non costituisce un criterio per ricorrere alla categoria genocidaria. Vanno accertate infatti l’intenzione (dichiarata e non) e la conseguente pratica di sterminio generalizzato di un popolo. Un pur elevato numero di vittime civili in conseguenza di bombardamenti o di altre azioni belliche non costituisce di per sé prova della volontà di eliminare un’intera popolazione.

Ciò si è reso evidente nel recente pronunciamento della Corte internazionale di Giustizia dell’Aia (24 gennaio 2024), sollecitata dal Sudafrica a prendere posizione, proprio sulla base della convenzione del 1948, sull’ennesimo conflitto israelo-palestinese. Il paese australe ha infatti denunciato l’esistenza di atti genocidari da parte di Israele nel corso della sua invasione della striscia di Gaza. Israele naturalmente ha replicato, contestando l’esistenza di prove su una sua intenzione di distruggere in tutto o in parte il popolo palestinese e considerando il proprio intervento come un’azione difensiva volta anche al recupero degli ostaggi. Le conclusioni della Corte hanno portato al riconoscimento dell’esistenza di incitamenti genocidari operati da personalità e da ufficiali israeliani, ragion per cui il governo di Israele è stato invitato ad agire per prevenire ogni rischio di peggioramento della situazione. La Corte dell’Aia ha inoltre chiesto a Israele di consentire l’effettivo approv­vigionamento di servizi essenziali ed assistenza umanitaria per la popolazione di Gaza. Come si vede, tutto continua a ruotare attorno al concetto di “intenzionalità” e la discussione si protrarrà certamente anche dopo l’auspicata conclusione delle operazioni militari.

Crediti immagine: Definizione estratta dal Vocabolario online di Treccani (immagine rielaborata)

  • Giorgio Vecchio

    Giorgio Vecchio ha insegnato Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Parma. Ha studiato il rapporto tra cattolici e politica, tra cattolici e guerra mondiale, i movimenti pacifisti e la storia della bandiera nazionale italiana.