Sempre più frequentemente assistiamo sui temi della giustizia all’eterno ritorno dell’eguale. Si ripropone nelle dichiarazioni e nelle azioni di molte parti politiche quella che è una costante della scena politica italiana: l’intolleranza per il controllo di legalità esercitato dai giudici, sia civili sia penali sia contabili. Questa refrattarietà non è certo un fatto recente perché ha attraversato la politica italiana da alcuni decenni; almeno, da quando l’azione giudiziaria ha toccato i “santuari” dei partiti politici e della loro classe dirigente e amministrativa ai vari livelli.

Sia ben chiaro: non si vuole sostenere che l’azione giudiziaria sia stata sempre ineccepibile e scevra da errori e scivolate; ma va, egualmente, detto che le reazioni di intolleranza e di insofferenza si sono dirette (come sarebbe stato giusto e doveroso) non verso gli errori o le colpe specificamente individuati, ma in termini generali verso l’attività dei giudici nel suo complesso, verso la stessa funzione giudiziaria.

Il fenomeno non è certo recente ha riguardato nel corso degli anni tutti i settori del ceto politico, che, allorché sono stati interessati da una indagine, hanno di volta in volta reagito con modalità diverse secondo i soggetti, i tempi, le occasioni, ma tutte accomunate da una identica sostanziale reattività verso quelle che venivano considerate interferenze indebite. E non sono mancate nel corso degli anni iniziative politiche e sul piano legislativo miranti a contrastare o, quantomeno, a indebolire e depotenziare l’efficacia dell’azione di controllo dei giudici. Basti solo pensare, come uno dei tanti esempi, alle leggi “ad personam” approvate in epoca berlusconiana.

L’elemento di novità che caratterizza gli sviluppi più recenti è la convergenza nella maggioranza di governo di tutti i partiti che in passato hanno manifestato con più veemenza questa insofferenza e la parallela tendenza a procedere di fretta e a colpi di maggioranza, senza aprirsi a un confronto e senza ascoltare ragioni.

Prima di proseguire, si deve sottolineare che non si possono ignorare le responsabilità dei magistrati sulla crisi generale della giustizia in Italia; la magistratura non è esente da responsabilità, che vanno individuate con precisione e rimosse. E quindi non si deve indulgere in difese corporative e di retroguardia. Ma è anche compito dei magistrati e, più in generale di chi voglia compiere una realistica analisi fornire all’opinione pubblica informazioni corrette e non distorte da obiettivi non palesi e non dichiarati. Si badi bene: la magistratura non deve correre alla ricerca del consenso e, nella sua opera, deve mirare soltanto a svolgere il proprio compito nel migliore dei modi e con la più ampia indipendenza. Come si suol dire: senza speranze e senza timori, cioè senza aspettarsi benefici e senza farsi condizionare da possibili minacce.

Ma ciò non esclude che sia positivo sul piano del costume civile che l’azione giudiziaria riscuota attenzione da parte dell’opinione pubblica. Le recenti statistiche mostrano come la magistratura sia molto scesa nell’indice di gradimento dei cittadini. Il fenomeno non può essere ignorato e, anzi, pone degli interrogativi che è bene tener presenti. In effetti, il disorientamento dell’opinione pubblica è abbastanza comprensibile sia per la percezione delle oggettive disfunzioni dell’amministrazione della giustizia sia per la pluriennale opera di delegittimazione condotta da chi ritiene o gestisce o condiziona i mezzi di comunicazione da posizioni di potere e/o di interesse.

Più in generale, l’insofferenza di questa maggioranza governativa verso il concetto stesso dei controlli e dei limiti che sono tipici della dinamica costituzionale emerge dai progetti di legge sull’elezione diretta del Capo del governo, che inevitabilmente porterebbe a espandere l’arco dei poteri di questo e ridurrebbe la funzione di controllo esercitata da altri organi costituzionali. In tale prospettiva, per restare all’ambito giudiziario, pare opportuno ricordare le iniziative attuate nei confronti della Corte dei conti, le critiche più o meno esplicite alla Corte costituzionale e i propositi di attuarne una inedita lottizzazione dei giudici. Si registra, quindi, una espansione dell’ambito della critica all’azione giudiziaria, che va ben oltre lo spazio, consueto, dedicato negli anni alla giustizia ordinaria e si estende anche ad altre istituzioni cui è attribuita una funzione tipica di controllo dell’attività amministrativa e di governo.  Senza voler drammatizzare ma con realismo, non si può fare a meno, tuttavia, di pensare a quanto è successo nell’Ungheria di Orban e nella Polonia degli anni passati: entrambe queste Nazioni sono finite sotto l’attenzione dell’Unione Europea proprio per le forti lesioni impresse all’indipendenza dell’Ordine giudiziario.

Coerenti con la volontà di portare a compimento questo disegno di riduzione degli spazi dell’azione giudiziaria appaiono, inoltre, altre iniziative legislative che, di per se sole, non hanno reale efficacia sul piano della sicurezza collettiva ma assumono oggettivamente una funzione di “mezzi di distrazione di massa“. Si pensi alla moltiplicazione dei reati, con la creazione di nuove fattispecie del tutto marginali e di ridotto allarme sociale. Per esempio, il reato in materia di rave, lo strombazzato obiettivo di perseguire gli scafisti “per tutto l’orbe terracqueo” o altre ipotesi simili, tutte accomunate dall’obiettivo di dare a una opinione pubblica distratta la sensazione che si sta facendo qualcosa in materia di sicurezza; e, nel contempo, si distoglie l’attenzione pubblica dagli attentati veri all’azione giudiziaria.

Molto più preoccupanti, invece, sono le iniziative di cancellazione di reati, come l’abuso di ufficio per il quale la maggioranza non ha voluto sentire nessuna delle ragioni di coloro che proponevano una riformulazione ragionata ma non l’abolizione di un reato importante nell’ottica della vigilanza e dei controlli sulla legalità dell’azione amministrativa. In proposito non si può fare a meno di ricordare l’aiuto improvvido fornito da partiti di opposizione che nulla di efficace hanno fatto per evitare di farsi strumentalizzare e per contrastare il racconto circa l’appoggio dei “sindaci di sinistra“. L’effetto deleterio è stato che, partendo dalle indubbie disfunzioni del reato di abuso di ufficio così come era stato disegnato in origine, non si è voluto procedere a ragionevoli modifiche e riformulazione e si è preferito imboccare la strada più comoda dell’abolizione, così privando l’azione della magistratura e delle forze di polizia di uno strumento da tutti ritenuto fondamentale per l’individuazione e l’emersione della corruzione nella pubblica amministrazione.

Analoghe considerazioni valgono per la fortissima riduzione dello spazio di efficacia del reato si traffico di influenze illecite; fenomeno che l’esperienza mostra quanto sia diffuso.

Una analoga e parallela insofferenza si registra anche nei confronti della funzione di controllo esercitata dall’opinione pubblica attraverso l’informazione. Con la stessa preoccupazione vanno ricordati i provvedimenti legislativi che mirano a limitare fortemente la possibilità per la stampa di dare completa notizia e informazione lecita su procedimenti penali in corso (la cosiddetta “legge-bavaglio”). In proposito, un indice preoccupante è dato dall’aumento delle cause promosse da esponenti politici contro i giornalisti, spesso con liti pretestuose e temerarie  e, comunque, sempre con un intrinseco intento intimidatorio.

A fronte di questa “effervescenza legislativa” si registra la elusione di quella che è la principale causa di malfunzionamento della giustizia, e cioè la carenza di risorse. E con ciò non ci si riferisce (solo) ai capitoli di bilancio finanziario (peraltro scarno) ma a tutte le risorse strumentali e di attrezzature, da incrementare; di personale, da assumere; di apparato normativo, da riformare. In proposito si è registrato un ulteriore esempio di disinteresse del Governo per favorire l’effettivo buon funzionamento della giustizia. Infatti il mese scorso è stata inviata al Ministro della giustizia una lettera sottoscritta da tutti i presidenti di Corte d’appello d’Italia  con la quale si segnalavano alcuni specifici interventi urgenti e non differibili, pena la completa paralisi dell’attività dei Tribunali. La lettera non ha avuto nessuna risposta. È stata completamente ignorata.

È palese l’effetto, se non l’intenzione, di paralizzare o almeno rallentare l’azione della magistratura, salvo, poi, attribuire ad essa la responsabilità di tutti i mali della giustizia e della mancanza di risultati di riforme annunciate con grande clamore ma lasciate prive dei necessari supporti. E qui va sottolineato l’equivoco (volutamente coltivato da chi in questi decenni male ha sopportato l’azione di controllo della magistratura) per il quale si imputano ai magistrati le disfunzioni e le lentezze del sistema giudiziario. Ma della crisi attuale i magistrati sono parte del problema non il problema. Mentre una delle caratteristiche dell’attacco consolidato e reiterato negli anni è stata quella di porre in essere una operazione callida e suggestiva: cioè di imputare alla magistratura tutti i malanni che affliggono l’amministrazione della giustizia e la macchina giudiziaria nel suo complesso, ivi compresa la capacità di iniziativa delle forze di polizia.

Sorprende che in questo disegno di progressiva riduzione dello spazio di intervento della magistratura si sia passati dal vecchio ( e non rimpianto) motto “legge e ordine” tipico della tradizione politica in cui parte della attuale maggioranza di governo affonda le sue radici a una prassi di direzione opposta. Ma anche questo è un segno dei tempi sul quale ci si deve interrogare.

La preoccupazione per la tendenza della legislazione e della attività di Governo in materia di giustizia è giunta anche a Bruxelles al livello dell’Unione Europea, come è confermato dalla ispezione attivata da una apposita Commissione che, dopo aver realizzato un dossier con una serie di domande precise e analitiche, ha avviato colloqui riservati con funzionari ministeriali italiani per ottenere risposte precise sullo “Stato di diritto” in Italia. E pensare che in anni non lontani la legislazione italiana in materia di giustizia veniva imitata e presa a modello da molti Stati europei!

(Foto: Wikimedia Commons)

  • Piero Martello

    Magistrato di Cassazione a riposo, già Presidente del Tribunale del lavoro di Milano.