Dal 2001 la politica italiana, nel pensare alla riforma della Costituzione, è guidata da una falsa stella polare: la priorità non è il paese in un mondo che cambia vertiginosamente né la democrazia federale europea da costruire, ma l’ossessione di risolvere per questa via debolezze dei partiti e tenuta delle coalizioni. Iniziò il centrosinistra, continua imperterrita la destra, con l’autonomia differenziata e il premier elettivo. Sarebbe saggio interrogarsi sull’esito prodotto da questo modus agendi: quattro referendum costituzionali, nel 2001, 2006, 2016, 2020, rispettivamente sul nuovo Titolo V, sulla modifica della seconda parte della Costituzione, sul superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari e il contenimento dei costi della politica, infine sulla riduzione del numero dei parlamentari. Il primo e l’ultimo referendum sono stati approvati dai cittadini. Accanto ai progetti di revisione costituzionale, con la stessa logica e una dose di populismo, si è proceduto per le leggi elettorali: la legge Mattarella (75% maggioritario, 25% proporzionale) funzionava e sarebbe stata ottima con pochi ritocchi relativi alle “liste civetta” ma la destra non la riteneva conveniente e la sostituì con la legge Calderoli, dal medesimo definita “porcellum”; il centrosinistra con la nuova destra di Alfano, a sua volta, fece approvare l’”italicum”. Sia quest’ultimo che il “porcellum” sono stati dichiarati parzialmente incostituzionali dalla Corte. Oggi è in vigore la pessima legge “rosatellum”, che sottrae ai cittadini anche la libertà di scelta costringendoli a esprimere un unico voto sul candidato nel collegio maggioritario e sulla lista proporzionale: il governo Gentiloni pose, in aggiunta, anche la fiducia sull’approvazione della legge, un precedente pericoloso.
La conseguenza è che l’Italia indossa come vestito istituzionale quello di Arlecchino: elezione diretta, con un maggioritario a doppio turno e limite di due mandati consecutivi, per i sindaci dei comuni con più di 15000 abitanti, con il maggioritario a un turno e limite di tre mandati per i comuni con una popolazione inferiore a 15000, ancora maggioritario a un turno e limite di due mandati per i presidenti delle Regioni, tranne Veneto e Campania che si erano dimenticate -mi si consenta un’amara ironia- di prevederlo nei loro Statuti. All’elezione diretta di sindaci e presidenti di Regione si accompagna un premio di maggioranza, che non mi solleva dubbi riguardo alla scelta della governabilità per i sindaci, mentre mi appare meno convincente in riferimento ai presidenti di Regione, legato com’è al turno unico. Completano il quadro, da un lato una riforma delle provincie, che ha cancellato l’esistenza dell’ente intermedio, ha previsto il voto indiretto, di sindaci e consiglieri comunali, per eleggerne il presidente, salvo ridiscutere oggi del ritorno al suffragio universale, senza però affrontare il tema delle loro funzioni, risorse e della aleatorietà delle Città metropolitane; dall’altro la conservazione del bicameralismo paritario perché, quando si parla di Bundesrat italiano si vuole che, a differenza della Germania, ne facciano parte non i delegati dei governi regionali, ma anche sindaci, presidenti di provincia, consiglieri facendo così venire meno unitarietà del voto dei rappresentanti di ogni Regione e assenza di gruppi parlamentari di partito. I modelli costituzionali o si assumono nella loro integrità o si combinano pasticci! Se non si vuole una Camera delle Regioni, l’alternativa è l’elezione del Senato a suffragio universale con una differenziazione netta delle funzioni oppure una seconda Camera mista, in parte eletta dai cittadini, in parte dalle assemblee regionali, come in Spagna.
Si colloca in questa stessa logica il dibattito surreale che si è aperto su un terzo mandato per i presidenti delle Regioni: le ragioni del Si o del No non risiedono nella simpatia o antipatia per De Luca o Zaia ma in motivi di principio e di coerenza democratica. L’elezione diretta di chi guida un governo, senza il limite di due mandati consecutivi, snatura la democrazia, fa dell’elezione diretta una deriva che ne annacqua i contorni, consolidando sistemi personalistici, fino a diventare una variabile dell’autoritarismo. Per le Regioni ci si dovrebbe porre il problema di un premio di maggioranza affidato al doppio turno, non il superamento dei due mandati! Non si possono gestire a “la carte” i modelli costituzionali.
Abbiamo bisogno di un progetto che guardi all’Italia e all’Europa: approfondire la confusa situazione attuale delle nostre istituzioni democratiche, con il doppiarsi di funzioni che generano distacco dei cittadini e inefficacia; rendere moderno lo Stato centrale, non scomporlo in venti staterelli regionali; valorizzare il ruolo proprio di Comuni, Provincie e Regioni; superare il bicameralismo paritario, in via prioritaria con un Bundesrat italiano; dare stabilità ai governi, in coerenza con la Costituzione, con la sfiducia costruttiva al premier. La maggioranza di destra e la presidente Meloni sono davanti a un bivio: andare a un nuovo scontro frontale sulla Costituzione, sommando al permanere nel simbolo di Fratelli d’Italia della fiamma del MSI, che emana dalla tomba del duce, una revisione costituzionale unilaterale che rende il partito erede di chi non partecipò all’Assemblea costituente responsabile di uno strappo negli equilibri tra presidenza della Repubblica, Parlamento e governo, oppure aprirsi a un confronto con l’opposizione, che si proponga senza subordinate l’intesa. È su questo terreno che si può costruire il domani dell’Italia, avere una destra alternativa alla sinistra su programmi e politica, non sui valori della Costituzione. Il centrosinistra dovrebbe porre al paese e alla destra questo obiettivo: non temendo il referendum, se la destra imporrà le sue scelte, ma non facendone l’obiettivo primario.
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