Di recente mi sono imbattuto in una notizia esilarante che mi ha fatto sorridere (amaramente): l’ennesima disputa sul simbolo della Dc tra Cuffaro e Rotondi, l’uno reduce da una condanna (scontata) per mafia, l’altro, una vita a servizio di Berlusconi e, da ultimo, eletto nelle fila di Fratelli d’Italia. Ho fatto caso a una notizia a tutti gli effetti minore forse perché sto leggendo la monumentale storia della Dc edita dal Mulino a cura di tre valenti storici: Guido Formigoni, Paolo Pombeni, Giorgio Vecchio. Stridente il contrasto. Una vicenda comunque grande appunto e giustamente affidata agli storici di professione e il misero spettacolo offerto, ancora dopo trent’anni dalla chiusura del “partito italiano” (definizione di Agostino Giovagnoli), dai tanti, troppi che ancora si affannano e si azzuffano impancandosi a suoi eredi. Mettendo semmai a verbale l’esatto contrario: ovvero di non portare il minimo di rispetto per la portata storica (comunque la si giudichi) della vicenda democratico-cristiana. Vero è che non dovremmo sorprenderci. Trattasi solo di un minuscolo episodio, e neppure il più grottesco, di una lunga catena cui abbiamo assistito dal giorno dello scioglimento della Dc. Una decisione audace e traumatica – ancorché forse obbligata – assunta da un uomo, Mino Martinazzoli, che, persino nei suoi tratti somatici, trasmetteva il senso della serietà e della natura drammatica di quell’epilogo. Immediatamente dopo prese il via la catena di furberie e di opportunismi, della svendita di un patrimonio pur di sopravvivere politicamente da parte di alcuni suoi esponenti di seconda e terza fila. I primi, i più svelti – lo rammentiamo – la coppia Mastella-Casini, che prontamente saltarono sul carro di Berlusconi. Un imprenditore-tycoon improvvisatosi politico con il suo ingombrante carico di conflitto di interessi (mai rimosso in trent’anni di potere) che, come si notò, più che ostile alla democrazia, si mostrò radicalmente “estraneo” ad essa. Dunque, quanto di più lontano da chi aveva militato nel partito fondato appunto da De Gasperi, uno dei padri della democrazia italiana. Fu solo il primo atto di una sequela di sigle presuntuosamente e velleitariamente evocatrici della Dc che giustamente hanno avuto scarsa fortuna. Cespugli e cespuglietti nati e dissolti in breve arco di tempo, soprattutto nei dintorni di Forza Italia, sue sottomarche. Delle quali qualcuna, in forma parassitaria, ancora nominalmente sopravvive. Penso ai cosiddetti Moderati di Lupi, realtà puramente virtuale, che, come ci spiegano i sondaggisti, nelle rilevazioni raccolgono un esile 1%, che in verità suona persino troppo, solo perché figurano in elenco.
Torniamo alle cose serie. Avremo modo di occuparci come merita della storia della Dc editata dal Mulino. Basti un cenno. Scorrendo quelle dense pagine (700), si misura la portata di una vicenda che si intreccia intimamente e profondamente con la storia dell’Italia e dell’Europa, con la più estesa dimensione dei movimenti e dei partiti democratico-cristiani. Pur con le sue peculiarità nostrane. Una storia controversa, intessuta di luci e di ombre, di stagioni alte e di stagioni basse, di personalità eminenti e di figure minori e anche opache. Ma, indubitabilmente, di una pagina di rilievo e singolarmente complessa. Comunque un partito attore-protagonista dell’instaurazione e dello sviluppo della democrazia italiana. Certo, anche dei suoi limiti e delle sue contraddizioni. Con le radici piantate dentro la società, per lungo tempo in rapporto con la Chiesa e le sue articolazioni associative, dentro le quali si forgiò la sua classe dirigente. Specie quella della cosiddetta “prima generazione”. Un partito plurale, che ricomprendeva una ricca gamma di culture e di orientamenti politici. Persino troppi, a motivo di una democrazia priva di fisiologica alternanza che conferiva alla Dc il profilo di partito-contenitore di “una larga convenzione di consensi” (copyright Gabriele De Rosa).
Gli eredi e gli emuli improbabili di quella esperienza politica dovrebbero dare ascolto a chi, con il conforto degli storici, ci istruisce sulla circostanza che quella vicenda è a tutti gli effetti datata e irripetibile, situata in un tempo e dentro coordinate non riproducibili (per rimarcarlo, Dossetti, sul finire della sua vita, per paradosso, notò che è persino più probabile che rinasca il comunismo morto e sepolto, piuttosto che qualcosa che somigli alla Dc, tale è la sua singolarità): la seminagione operata dentro l’universo cattolico già al tempo del fascismo nel predisporre la futura classe dirigente, la guerra fredda, una Chiesa magari tradizionalista ma viva e strutturata comprensiva di minoranze illuminate, il protagonismo dei partiti artefici della nuova Repubblica, il compromesso tra capitalismo e democrazia…. Si porti rispetto alla storia e ci siano risparmiate caricature che sconfinano nel ridicolo. Lo ha notato persino Casini, non il più titolato, che, come accennato, fu tra i primi a non dare il buon esempio.