Nella seconda metà dell’Ottocento ebbe una discreta fortuna il romanzo storico-satirico di Petruccelli della Gattina intitolato “I moribondi del Palazzo Carignano”. L’autore, giornalista e politico della (vaga) Sinistra di quel tempo, prendeva in giro i suoi colleghi – ma anche se stesso – asserendo abbastanza fondatamente che il Parlamento di allora contava poco o niente. Ma cosa direbbe se a lui fosse dato di rifare le cronache parlamentari nell’era nostra, caratterizzata dal populismo, degli influencer, dai partiti pressoché inesistenti e dai talk show inconcludentemente vociferanti?

È anche troppo facile intingere la penna nell’inchiostro dell’antiparlamentarismo… fin dal momento in cui lo scandì il Duce, già ai primordi della presa di potere del fascismo: “Avrei potuto fare di quest’Aula sorda e grigia” ecc.

Certo che già una prima lettura del testo della “madre di tutte le riforme” (copyright Giorgia) conduce subito a veder ribadito, anche per gli ipovedenti, il ridimensionamento nettamente in pejus delle attribuzioni e prerogative del Presidente della Repubblica-Capo dello Stato, sia per la scelta e nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri sia per la decisione di sciogliere le Camere.

Su ciò – che, come tutti sanno, è il cuore del problema – torneremo un’altra volta. Va precisato che, soltanto per la sicurezza di sé tipica del Presidente del Senato La Russa, si è avuto la faccia tosta di ammetterlo, pur circondandolo del latinorum: costituzione materiale (da rigettare) e costituzione formale (da ripristinare).

Adesso vorrei soffermarmi su un’altra enorme anomalia: quella dell’abbassamento secco della situazione costituzionale del Parlamento e, in via indiretta ma immediata, sulla diminuzione che ne discende nella posizione politica del cittadino-elettore, i cui rappresentanti non contano più quasi niente… come membri di una delle due Camere.

Questo lato della riforma solo qualche commentatore autorevole lo ha criticato: penso a Enzo Cheli intervistato nei giorni scorsi da Il Sole 24 ore o all’ex segretario generale della Camera Mauro Zampini, che con la firma di Montesquieu scrive su La Stampa. Ma soprattutto mi riferisco ad Augusto Barbera, che ne ha parlato al momento del suo insediamento come nuovo Presidente della Corte costituzionale.

In estrema sintesi si sono sottolineati i seguenti gravi difetti. Che, se passeranno le nuove norme, il Parlamento sarebbe posto a rimorchio del Governo, ancor più di quanto non sia oggi. Cheli è drastico, oltre ad essere tecnicamente preciso: “In questo progetto di riforma il Parlamento nasce e muore con il governo e il governo lo tiene sotto scacco con il potere di scioglimento”. Un tale asservimento, capace da solo di produrre la variazione formale e sostanziale della collocazione topografica del Potere legislativo in Costituzione, che dovrebbe coerentemente cedere la prima posizione al Governo (oggi al III posto, anche dopo le norme sul Presidente della Repubblica), si traduce subito nella lesione del principio base del costituzionalismo liberale e democratico. Per il quale il Parlamento dà e toglie la fiducia all’Esecutivo (quello era il nome antico!) e non viceversa.

Altro argomento. La funzionalità del Parlamento è oggi molto bassa e scarsa la sua efficacia. Alla tanto ricercata e voluta diminuzione del numero dei parlamentari non ha fatto seguito nessuna discussione seria sulla necessità di mantenere, oggi, un bicameralismo che è perfetto e paritario solo nella facciata.

Se non si ha la capacità di differenziare seriamente Camera e Senato, distinguendo le loro funzioni e cercando di migliorare, nella Seconda Camera, la qualità competenziale dei senatori (fra l’altro quelli per meriti vengono rottamati allegramente) si abbia il coraggio di andare ad un monocameralismo. Tanto Montecitorio può ospitare tranquillamente seicento eletti dal popolo e Palazzo Madama potrebbe essere trasformato in uno splendido Hotel a 10 stelle, risanando pro quota l’esangue bilancio dello Stato. Naturalmente della promessa di revisionare profondamente i regolamenti parlamentari si era parlato solo per scherzo, prima delle elezioni

Ma l’anomalia più grave concerne la purulenta piaga dei decreti-legge. Questi, che dovrebbero essere adottati soltanto: in casi 1) straordinari 2) di necessità 3) di urgenza, essendo tutti e tre i requisiti indispensabili, sono diventati il modo usuale e quotidiano di fare legislazione.

Lo schema sempre ripetuto è il seguente. Il Governo, sotto la sua responsabilità (beninteso!), adotta il decreto… anzi dichiara in televisione di averlo votato (?!?) in Consiglio dei ministri. Qualche giorno dopo (post verifiche e interlocuzioni quirinalizie) il testo viene firmato dal Presidente della Repubblica e inviato alla Gazzetta Ufficiale. Dalla mezzanotte di quel giorno entra in vigore e scattano i 60 giorni per la sua conversione in legge, ovviamente da entrambi i rami del Parlamento. Anche se sappiamo già che la Camera a cui arriva in seconda battuta avrà solo pochissimi giorni per esaminarlo in Commissione e votarlo… dice pateticamente l’art. 72 Cost. “articolo per articolo”. Intanto fugit hora e la maggioranza che dovrebbe votarlo potrebbe essere, in partibus, recalcitrante e ricattatoria. Così si arriva agli ultimi giorni, quando il Governo giocherà l’asso di briscola di porre la questione di fiducia su un maxi emendamento che ha il potere di azzerare tutto il lavoro fatto in precedenza, sia in Commissione che in Aula. Si vota dunque, alla fine, su un unico maxiemendamento del Governo. la maggioranza del Parlamento sotto ricatto della fiducia posta approva. Se no sa che andrà a casa. Così è passato lo scorso anno, all’ultimo giorno utile, la più importante legge di bilancio: un unico articolo formato da oltre 900 commi.

Il neo-presidente della Corte costituzionale Barbera non ha avuto remore a definire “obbrobriosi” tali emendamenti e a pungolare ed ammonire le Camere che è loro preciso, ineludibile compito quello di “fare le leggi”.

Qui siamo alle basi fondamentali di un sistema democratico. Di questo i nostri parlamentari che stanno all’Opposizione dovrebbero preoccuparsi seriamente. Dal 1748 almeno la separazione dei poteri è l’abc del costituzionalismo democratico. Se vacillano le colonne il tempio è destinato a crollare, anche se il fregio del timpano riproduce scene antiche, ma pietrificate, di libertà ed eguaglianza.

 

 

Crediti foto: Vlad LesnovCC BY 3.0, via Wikimedia Commons

  • Enzo Balboni

    Già professore di Diritto costituzionale, Università Cattolica di Milano.