Il recente incontro tra Biden e Xi Jinping a San Francisco è apparso come un tentativo di ripresa di dialogo tra i due giganti del mondo contemporaneo (su elementi non banali, come lo scambio di informazioni militari o i colloqui sul clima). Lo è senz’altro stato, ma mi pare sia anche stato la testimonianza più chiara delle necessità e dei limiti del rapporto Cina-Usa nel mondo contemporaneo. Siamo infatti di fronte a una relazione problematica, ricca di contraddizioni e di incertezze, ma al tempo stesso obbligata e stretta, con alcuni elementi chiari di fondo che vale la pena di evidenziare.

La lettura prevalente, spesso ripetuta come un mantra sui nostri mezzi di comunicazione è piuttosto semplice. Gli Stati Uniti, potenza dominante che sta però vivendo alcuni rischi di declino, hanno accompagnato ingenuamente la crescita economica e poi politica della Cina nell’illusione della stagione rampante della globalizzazione, in cui si poteva immaginare che la diffusione del commercio e della cultura di massa occidentale portasse quasi spontaneamente libertà e democrazia in ogni angolo del pianeta. Accortisi recentemente che invece era cresciuto un antagonista infido, autoritario e pericoloso, essi stanno cominciando a prendere le misure della nuova sfida, avviando politiche protezioniste e nuove restrizioni agli scambi e alla cooperazione tra i due giganti, condita con la riscoperta di irrimediabili barriere ideologiche tra capitalismo liberale e comunismo autoritario. Per cui saremmo ormai scivolati in una sorta di nuova guerra fredda, pronta rischiosamente a diventare calda attorno alle difficili situazioni di Taiwan (o di Hong Kong). Dalle prime barriere doganali imposte con grande clamore da Trump, saremmo arrivati allo scontro sotterraneo sui legami con la Russia di Putin e alle diffidenze dell’amministrazione Biden, impegnata a «disaccoppiare» le due economie, per difendere alcuni elementi strategici dello sviluppo economico interno.

Di qui a immaginare la guerra fredda come premessa di uno scontro globale senza tregua né limiti, poco ci corre. Ci si mette anche la letteratura: un grande romanziere d’intrattenimento come Ken Follett conclude la sua sterminata saga sulla storia del Novecento letta attraverso un gruppo di famiglie variamente intrecciate tra loro con (attenzione: spoiler…) lo scoppio di bombe atomiche sulle maggiori città americane e cinesi.

La metafora della guerra fredda è un comodo ricorso ai precedenti storici, che però in questo caso va presa con moltissime precauzioni, anzi, va sostanzialmente smontata. La guerra fredda storica fu una situazione quarantennale delineatasi nel fallimento della (forzata) cooperazione antifascista della seconda guerra mondiale. Che si spezzò attorno a questioni cruciali, come quella del destino della Germania, per mettere capo a una situazione asimmetrica. La superpotenza statunitense coltivava il proprio Great Design di un mondo integrato economicamente e passibile di diffusione del proprio modello essenziale: la crescita produttiva come via per stemperare i problemi distributivi e quindi come strada per la risoluzione dei conflitti. Il sospettoso dittatore sovietico Stalin non volle portare la patria del socialismo in quell’orizzonte, e si ingegnò a difendere una sfera d’influenza esclusiva (allargata per effetto della sanguinosa vittoria sui nazismo nella guerra mondiale all’Europa centro-orientale e poi apparentemente alla Cina con la vittoria di Mao del 1949), in modo da affermare orgogliosamente l’autosufficienza del socialismo, sia pur sapendo di essere un sistema molto meno ricco e solido dell’antagonista. Sullo sfondo, ci stava la convinzione ideologica di una «guerra inevitabile» che prima o poi sarebbe stata scatenata dal capitalismo mondiale contro la patria della rivoluzione. E di fronte quindi a questa chiusura sospettosa e rigida, l’approccio americano scelse la via proposta dal diplomatico Gorge Kennan, cioè il containment, la creazione di una catena di alleanze e solidarietà per bloccare ogni possibile allargamento della sfera sovietica.

Insomma, i due mondi erano veramente e profondamente divisi. E la minaccia di scivolare ogni momento in una guerra calda balenava attorno a ogni incidente o ad ogni segnale di crisi, frequentissime nei primi anni della confrontation globale. Con la bomba atomica a peggiorare i timori. Anche quando le ombre di una terza guerra mondiale si attenuarono, fino a quasi svanire dall’orizzonte delle relazioni bipolari, tra gli anni Sessanta e i Settanta, le barriere tra i mondi restarono molto significative, ancorché un poco più porose. I falchi dei rispettivi schieramenti non permisero mai che la cosiddetta «distensione» assumesse un significato maggiore di una semplice convivenza di fatto dei due sistemi e di una normalizzazione che lasciasse comunque sopravvivere tutto l’armamentario dei blocchi contrapposti, delle loro ideologie, dei loro simboli, dei loro riti, dei loro interessi.

Oggi la situazione è del tutto diversa. Vent’anni di globalizzazione hanno ottenuto i loro effetti, in parte sicuramente irreversibili. Sbagliano coloro che parlano di una «deglobalizzazione» ormai vincente. I diversi sistemi socio-economici sono diventati profondamente interdipendenti. La finanziarizzazione dell’economia occidentale ha avuto bisogno e continua ad aver bisogno delle merci a basso prezzo provenienti dai paesi emergenti come la Cina, per compensare le difficoltà dei propri mondi sociali interni, già incattiviti dalla deindustrializzazione e segnati dalla compressione dei redditi di lavoro. Specularmente, il gigante cinese ha avuto bisogno della finanza occidentale per mettere al sicuro e far fruttare le enormi riserve valutarie costituite con il proprio cospicuo surplus commerciale. Il «socialismo di mercato» (o «socialismo dalle caratteristiche cinesi») come definito dai mandarini de partito, sarà una creatura strana e quasi inaspettata, una specie di ircocervo mitologico. Ma ha trovato una sua solidità ed è riuscito a far uscire dalla povertà centinaia di milioni di cinesi, gestendo un difficile equilibrio sociale tra parte avanzata e parte tradizionale del paese. E lo ha fatto stringendo legami con il mondo esterno che costituiscono ormai una rete di interessi biunivoci, che si possono revocare solo a prezzo di grossi sconvolgimenti.

Certo, quindi, ci possono essere e ci sono senz’altro stati negli ultimi anni sia incomprensioni che parziali correzioni di rotta. Se Xi Jinping pensa che si debba alzare la voce di una politica estera più assertiva (sul Xinjiang, su Taiwan o sulle isole del Mar Cinese meridionale), questo non vuol dire che possa pensare di usare armi non convenzionali per mettere in difficoltà gli Stati Uniti, a prezzo di averne effetti negativi a casa propria (dove già il boom del mattone sta finendo, la crescita basata sulle esportazioni rallenta, le aspettative crescenti di una parte del gigantesco paese non sono facili da soddisfare). Così dall’altra parte, se Biden fa approvare il Chips Act sui microprocessori che reinternalizza una parte significativa della produzione con enormi investimenti pubblici (50 miliardi di dollari), per non lasciare che questa componente cruciale della tecnologia possa essere usata da paesi stranieri come strumento di pressione politica contro gli Stati Uniti, questo non vuol dire che le provocazioni su Taiwan (come a visita di Nancy Pelosi) o che le recriminazioni per il sostegno a Putin possano costituire una linea destinata ad aggravarsi: sono probabilmente increspature di un quadro che non vede via d’uscita facili dall’interdipendenza.

Se questo è vero, allora non ha senso parlare di guerra fredda, e tantomeno auspicare un irrigidimento dei mondi, noi contro loro. E avrebbe invece senso parlare magari di competizione strategica, di sollecitazione dell’avversario sui suoi punti deboli (certo, i diritti, le libertà…), purtuttavia ricordandosi sempre che si vive in un quadro di collaborazione più o meno forzata. Come ben sappiamo, è indice di saggezza politica volgere a proprio favore le necessità: e quindi forse sarebbe il momento opportuno in cui i due giganti possano cooperare di più per creare stabilità e pace nei settori caldi che tormentano il nostro fragile sistema globale. Vedremo se ci sarà questa lungimiranza.

(Foto di JERO SenneGs su Freepik)

 

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.