La recente vicenda della piccola Indi Gregory ha avuto un’ampia risonanza nel dibattito bioetico. E non solo, visto il coinvolgimento del Governo italiano che con un Consiglio dei Ministri, espressamente dedicato, ha conferito la cittadinanza italiana alla neonata inglese di 8 mesi ricoverata al Queen Medical Center di Nottingham per patologia mitocondriale. La motivazione «in considerazione dell’eccezionale interesse per la Comunità nazionale ad assicurare alla minore ulteriori sviluppi terapeutici, nella tutela di preminenti valori umanitari che, nel caso di specie, attengono alla salvaguardia della salute.» La deliberazione ha fatto seguito alla disponibilità espressa dall’ospedale pediatrico “Bambino Gesù” di Roma per il ricovero di Indi e alla richiesta di concessione della cittadinanza italiana avanzata dai legali dei genitori.
Tralasciando i risvolti politici ed i precedenti che lasciavano prevedere il rifiuto delle autorità inglesi al trasferimento in Italia, come già verificatosi per Alfie Evans nel 2018, si sono riproposti laceranti interrogativi in ambito bioetico. Interrogativi che accomunano le storie di Charlie Gard, Alfie Evans e Indy Gregory. Casi che hanno coinvolto l’opinione pubblica.
Charlie Gard nel 2017, bambino di 11 mesi, affetto da una rara forma di encefalomiopatia da deplezione del DNA mitocondriale. I medici ritennero, in ragione della gravità del danno cerebrale, di interrompere ogni sostegno vitale. I genitori di Charlie, invece, in disaccordo proposero il prosieguo dell’assistenza e il ricorso a terapia (nucleosidica) sperimentale negli Stati Uniti. Nel conflitto tra genitori e medici, l’England and Wales Court of Appeal (Civil Division), ritenendo futile ogni terapia e affermando la legittimità del “miglior interesse di Charlie”, approvò la richiesta di sospendere la ventilazione artificiale.
Alfie Evans nel 2018, poco meno di 2 anni, affetto da progressiva patologia neurodegenerativa con grave deterioramento cerebrale. Frequenti le crisi epilettiche, resistenti al trattamento con farmaci. Nel conflitto tra volontà dei genitori a proseguire l’assistenza e parere contrario dei medici, la Supreme Court of United Kingdom decise la sospensione di ogni trattamento secondo il “miglior interesse di Alfie” («every legal issue in this case is governed by Alfie’s best interests»).
Di queste settimane, infine, il caso Indi Gregory. Bambina inglese di 8 mesi, affetta da sindrome da deplezione del DNA mitocondriale. Alcune precisazioni su questa patologia. La sindrome da deplezione del DNA mitocondriale è una condizione genetica rara che colpisce il materiale genetico presente nei mitocondri, le c.d. centrali energetiche delle cellule. A causa di questa disfunzione viene compromessa la capacità delle cellule di produrre energia in modo efficiente e di contribuire in questo modo alla funzione dell’intero organismo. La malattia evolve molto velocemente causando diverse complicanze che coinvolgono i tessuti a elevato dispendio energetico, come il sistema nervoso centrale, il cuore, il sistema muscolo scheletrico, i polmoni arrivando a provocare un’insufficienza respiratoria e costringendo alla ventilazione artificiale. Nella maggior parte dei casi i bambini affetti dalla sindrome da deplezione del DNA mitocondriale muoiono prima di aver compiuto i due anni proprio a causa delle complicazioni che colpiscono l’organismo. Anche per Indi si è verificato un conflitto tra i genitori, disposti a un ulteriore consulto medico e comunque favorevoli al prosieguo dei trattamenti di sostegno vitale e alle cure palliative, a fronte dei medici che invece ritenevano ormai la piccola in uno stadio terminale e che qualunque ulteriore trattamento sarebbe stato futile e non corrispondente al suo “miglior interesse”. L’intervento dei giudici inglesi ha supportato la decisione dei medici con la sospensione dei supporti vitali.
Dalle storie di Charlie Gard, Alfie Evans e Indi Gregory – così nelle tante situazioni cliniche assimilabili a questi casi – emergono stringenti interrogativi bioetici. Che cosa si intende per proporzionalità di un trattamento? Inguaribilità significa anche incurabilità? Che cosa significa e come si definisce “il miglior interesse”? Questi sono solo alcuni dei molteplici interrogativi che queste storie pongono alla nostra attenzione. Interrogativi certo problematici che non possono essere elusi.
Alcune considerazioni in merito, seppur sintetiche.
La proporzionalità terapeutica è principio di giustificazione etica (ma anche giuridica) dell’atto medico, in base al quale è lecito solamente quell’atto medico i cui benefici attesi sono superiori, o almeno uguali, ai rischi previsti. La proporzionalità terapeutica costituisce, nella sua dimensione oggettiva, un criterio prioritario. Certo non può una definizione o una regola generale aiutare a dirimere immediatamente situazioni sempre drammatiche e tormentate nella dura effettività della situazione patologica. È di aiuto, però, un’attenta valutazione di parametri quali il tipo di trattamento, l’effetto atteso e le intenzioni.
La prima valutazione è in merito all’appropriatezza del trattamento da cui poter stabilire se iniziarlo, proseguirlo o sospenderlo. In altri termini determinare il bilanciamento tra miglioramento e stabilizzazione a fronte del peggioramento, ovvero tra costi e benefici per il singolo paziente nella specifica situazione clinica. Definire, quindi, proporzione o sproporzione del trattamento rispetto al bilanciamento che coniughi la valutazione clinica e la tutela della vita, evitando gravose sofferenze. Ne deriva che sono trattamenti doverosi quelli in cui sussiste un’ampia proporzionalità tra i benefici attesi (elevati, certi, ecc.) e i rischi previsti; trattamenti non doverosi quando c’è sproporzione tra i benefici attesi ed i rischi previsti (elevati, certi, ecc.).
Comunque, inguaribilità e incurabilità non sono equivalenti né sotto il profilo assistenziale né bioetico. Le malattie possono essere inguaribili ma tutte sono curabili, vale a dire che è dovere biomedico ed etico prendersi sempre cura del paziente ancor più se non ci sono più possibilità di ricorrere a terapie proporzionate. Il prendersi cura è la manifestazione concreta dell’alleanza, appunto di cura, da cui il ricorso a terapie del dolore, cure palliative, sedazione profonda continua in imminenza di morte, sostegni vitali.
Certo, il parametro della qualità o “quantità residuale” della vita possono avere una notevole influenza nella decisione. È una cultura, questa, che valuta il valore vita in base alla sua espressione di funzionalità da cui parametrare la dignità del vivere e del vivente in ragione delle funzioni in grado o meno di esprimersi. Risulta evidente che su questi presupposti si giustificherebbe perfino il non ricorso o la sospensione dei trattamenti palliativi, di sostegno vitale.
Per quanto riguarda il “miglior interesse del bambino” (the best interests of the child) – concetto applicato nei diversi ambiti d’intervento dei giudici minorile, tutelare e della famiglia e sistematico riferimento nelle sentenze Charlie, Alfie e Indi – è valutazione particolarmente complessa quando si tratta di bambini così piccoli. Nei casi specifici il “miglior interesse” è desunto dai giudici sulla base della situazione clinica. Infatti, come riportato su Indi Gregory dall’England and Wales High Court (Family Division), «con molto rammarico, sono giunto alla conclusione che il fardello del trattamento invasivo ne superi i benefici. In breve, la significativa sofferenza provata da questa adorabile bambina non è giustificata se confrontata con una serie di condizioni incurabili, una durata di vita molto breve, nessuna prospettiva di recupero e, nella migliore delle ipotesi, un’interazione minima con il mondo circostante. A mio giudizio, dopo aver soppesato tutte le circostanze concomitanti, i suoi migliori interessi sono rispettati consentendo al Trust di rimuovere il trattamento invasivo in conformità con il piano di cura presentato.»
Successivamente l’England and Wales Court of Appeal (Civil Division) ribadiva che «il fatto che l’istruttoria abbia riconosciuto vi fossero incertezze in relazione alle condizioni di Indi non significa fossero necessarie ulteriori prove. Ci sono sempre, e inevitabilmente ci saranno, domande senza risposta nei casi coinvolgenti queste evanescenti malattie mitocondriali rare. La prova che la condizione di Indi è incurabile e che l’intervento medico le sta causando dolore e sofferenza significativi è tuttavia chiara e convincente».
I giudici, pertanto, si sono basati (a giustificazione del “miglior interesse”) sulla sproporzione del trattamento in un quadro patologico incurabile (an incurable set of conditions) – viste la situazione clinica di Indi e le prospettive di vita – ponendo sullo stesso piano inguaribilità e incurabilità. Respingendo, così, sia la possibilità di una eventuale seconda opinione medica sia il ricorso a cure palliative.
E proprio sulla impossibilità di ricorrere a cure palliative che si incentra la maggiore criticità. Il cui ricorso non avrebbe certo significato il prosieguo di terapie futili o sproporzionate, nell’ostinazione irragionevole. Piuttosto la concreta attuazione del principio di “non resistere e non desistere”. Ovvero, nell’inguaribilità non ricorrere all’ostinazione irragionevole di trattamenti comunemente menzionata come accanimento clinico ma non impedire le cure palliative e le terapie del dolore come contrasto alla sofferenza. Appunto: curare nell’inguaribilità.
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