L’avevamo chiamato assalto (all’universalismo) – leggi qui e qui – , ma ora è chiaro che è stato un assedio; e forse adesso è un’invasione.

I lettori perdoneranno il linguaggio bellico, ma rende bene l’idea.

Da oltre un quarto di secolo il Ssn è sotto attacco. Non si tratta di un’azione improvvisa, violenta e manifesta (caratteristiche proprie di un assalto), ma di una lenta opera di logoramento volta a conquistare territori ambiti, affamando la popolazione e costringendola alla resa (caratteristiche proprie di un assedio). Un’opera volta a isolare l’assediato in modo che non possa ricevere rifornimenti dall’esterno, evitando devastazioni poco cavalleresche, tenendo il rivale sotto scacco, fiaccandone lentamente la resistenza fino a spingerlo a consegnarsi per salvaguardare la propria incolumità.

Rileggendo questa estate la storia dell’assedio di Torino del 1706, mi sono ritrovata a pensare che l’indebolimento della sanità pubblica è frutto di un’opera messa in atto con le strategie degli assedi cosiddetti scientifici che, oltre alla tecnica della presa per fame e per sete, cercano di praticare delle brecce – attentamente studiate dagli esperti militari – per stremare l’assediato e indurlo alla resa, percepita alla fine come una liberazione dal rischio di morire. L’assedio di Torino è uno dei pochi casi conclusosi con la fuga degli assedianti; gli storici attribuiscono il merito alla capacità di mettere in atto una strategia difensiva altrettanto scientifica, progettando e realizzando azioni di resistenza e difesa (sistemi di fortificazione, gallerie sotterranee, un enorme pozzo di rifornimento di acqua, accumulo di munizioni, scorte di cibo grazie al coinvolgimento dei contadini dei territori limitrofi, ecc.). La città si attrezzò negli anni, consapevole di poter essere oggetto di assedi cruenti e pericolosi.

Anche il Ssn ha subito qualcosa di simile a un lungo assedio. E questo è avvenuto da quando anche l’Italia è stata contagiata dall’epidemia di riforme che hanno coinvolto i sistemi sanitari di mezzo mondo, in nome del neoliberismo e delle leggi del mercato (R. Klein). All’inizio ci fu, nel1992, l’assalto improvviso e spregiudicato della legge De Lorenzo che, insieme all’aziendalizzazione, introdusse – fra l’altro – le “forme di assistenza differenziate” e la “libera professione intramuraria”. Ma le forze che volevano contenere il ruolo della sanità pubblica e aprire alla privatizzazione del SSN presero atto delle contrarietà della popolazione e del Parlamento (che approvò ben due riforme per modificare il d.lgs. 502/1992) e decisero di adottare una strategia fatta di attesa e azione: attesa del progressivo, autonomo logoramento del Ssn e azione per creare brecce e invadere il campo.

Purtroppo, diversamente dalla città di Torino, il Ssn non riuscì a definire una linea difensiva all’altezza della sfida: la riforma del ’99 sembrava sufficiente, le brecce aperte dagli assedianti apparivano temporanee, la resistenza puntò tutto sulla dedizione dei professionisti (imponendo condizioni di lavoro e remunerazioni inaccettabili in tempi normali), la popolazione imparò a tollerare accessi sempre più dilazionati e tortuosi, la programmazione sanitaria venne svuotata di ruolo e risorse, ecc.). Una linea difensiva che giocava al ribasso e che non poteva che comportare la perdita progressiva di alcune importanti funzioni della sanità pubblica, a partire da quella di regia pubblica nelle politiche per la salute. Salvo poche voci dissonanti rimaste inascoltate, nessuno si oppose alla riduzione del Ssn all’osso: nel personale, nei posti letto ospedalieri, nei consultori, nei centri di salute mentale, nella prevenzione collettiva, nella manutenzione delle tecnologie, nelle scorte di dispositivi per le emergenze, ecc. L’idea di avere un po’ di ridondanza per affrontare gli imprevisti appariva del tutto fuori luogo, antistorica e sprecona.

Il tutto in un contesto in cui prevaleva l’idea che ridurre il ruolo dello Stato e lasciar fare al mercato fosse la soluzione migliore, e non solo nella sanità. Le forze assedianti, portatrici degli interessi privati del settore, hanno sempre guardato al Ssn come a un ostacolo allo sviluppo del mercato delle prestazioni sanitarie e del mercato delle coperture assicurative, indifferenti agli effetti in termini di equità dell’impoverimento della sanità pubblica. Al contempo, i responsabili politici e tecnici della sanità pubblica hanno aderito acriticamente al pensiero neoliberista dominante che riteneva il sistema insostenibile, inefficiente, desueto e hanno preferito contare sempre più sul privato piuttosto che operare per qualificare seriamente il sistema pubblico. Un errore gravissimo.

E così, con la complicità dei media (che denunciavano la malasanità dimenticando le tante buone sanità), si diffuse un pensiero unico che univa le ambizioni del privato e il disimpegno del pubblico, e approntava le brecce per la crescita del mercato for profit (attraverso i fondi integrativi, il superticket, il mancato controllo dei tempi di attesa, ecc.). Emblematico è il tetto alla spesa per il personale dipendente del 2011, che ha costretto anche i più attenti decisori a esternalizzare i servizi o aumentare il ricorso al privato accreditato: quale imprenditore razionale, consapevole che la sua offerta dipende dal personale di cui può disporre, si autolimiterebbe nella possibilità di assumere professionisti qualificati, favorendo così la concorrenza?

Poi è arrivata la pandemia. Gli operatori del Ssn (gli assediati) si sono trovati senza scorte (di posti letto, di servizi sul territorio, di dispositivi, …) e hanno cercato di supplire con il loro impegno. Durante la pandemia il Ssn è stato fortificato, ma con provvedimenti emergenziali e non strutturali.

Oggi, la situazione è particolarmente preoccupante non solo perché troppe persone faticano ad accedere ai servizi, ma soprattutto perché stanno tornando, uno a uno, tutti gli argomenti che credevamo fossero stati spazzati via dalla pandemia: la salute non è più una priorità.

Di fronte all’inevitabile rigore che comunque sarà reintrodotto, arrestare il declino del SSN sarà quasi impossibile. E una piccola (o grande) spending review sembra già essere stata scritta. In realtà, bisognerebbe dichiarare inaccettabili ulteriori dosi di austerità nel settore sanitario. È pensabile proporre di battersi per escludere dal calcolo del debito per un congruo numero di anni gli investimenti necessari per ripristinare un’adeguata dotazione di personale sanitario e un’adeguata remunerazione dei professionisti della salute, nei paesi meno strutturati? La formazione e l’inserimento nel sistema sanitario di una adeguata dotazione di capitale umano è, in un settore ad alta intensità di lavoro, altrettanto fondamentale quanto l’acquisizione di apparecchiature tecnologiche o la realizzazione di strutture sanitari. Chi può battersi per questo?

 

Foto di Mulyadi su Unsplash

 

  • Nerina Dirindin

    Docente di Scienza delle Finanze e di Economia e organizzazione dei sistemi di welfare presso l’Università degli Studi di Torino, è stata direttrice generale del Ministero della salute, Assessore alla sanità della Regione Sardegna e Senatrice della Repubblica.