Secondo «La Repubblica» del 24 ottobre, della sanità pubblica si fidano soltanto il 52% degli italiani. Quel grande disegno universalistico nato negli anni Settanta, che ancora ci fa inorgoglire quando pensiamo a comparazioni internazionali e che il presidente Mattarella ha definito “un patrimonio prezioso da difendere” mostra quindi la corda?

Per evitare semplificazioni eccessive, ci sarebbero tante questioni da approfondire. Un’ottica esperienziale permette forse di accennarne alcune.

  1. Quanto è finanziato il sistema? Tutti i dati di programmazione economica del bilancio pubblico italiano ci parlano di una percentuale di spesa sanitaria pubblica sul PIL tra il 6 ed il 6,5 per cento (non è una differenza da poco, essendo ogni punto di Pil attorno ai 20 miliardi di euro). Il che vuol dire drammaticamente inferiore alle percentuali dei principali paesi europei, che veleggiano tra il 9 ed il 10%. Di certo il tema dell’incremento deciso ed in termini reali della spesa pubblica sanitaria sino ai livelli europei resta per l’Italia un enorme nodo strutturale (in assenza di crescita del PIL) e politico (data la complessità delle scelte sui tagli da effettuare per finanziare la sanità), che non potrà essere rinviato a lungo di bilancio in bilancio, pena la progressiva uscita dal modello sanitario universalistico. Probabilmente l’unico realistico progetto a medio termine di incremento di fondi pubblici per la sanità ha a che fare con l’Unione europea e con il PNRR, opportunità sinora sviluppata pochissimo, al di là dei proclami. Si può aggiungere a tale bilancio una spesa sanitaria privata, direttamente pagata dagli utenti, che sta rapidamente salendo verso una somma che nel 2023 si avvicinerà ai 40 miliardi (altri 2 punti di PIL). Già oggi circa 20 milioni di italiani hanno una copertura assicurativa sanitaria, in stragrande maggioranza con polizze collettive legate ai contratti di lavoro. È un numero enorme e la cosa grave è che in molti non sanno di averla, o meglio, non la conoscono e la usano pochissimo. Soldi che permettono al sistema di reggere e che ci piaccia o no vanno quasi tutti alle strutture private.

 

  1. Come il sistema ha retto finora in queste condizioni? Dobbiamo dire che sostanzialmente tale spesa è riuscita sinora a tenere in piedi un sistema ospedaliero per malattie acute che vanta punte di eccellenza europea. A prezzo di lasciar progressivamente cadere a margini (in termini di investimenti) la sanità territoriale, la lungodegenza, la presa in carico della disabilità e delle fragilità sanitarie sempre più diffuse, ultimamente anche la diagnostica (il che spiega le lunghissime attese per un esame di controllo). Inoltre, si sono introdotte, a partire dal 2008, regole per il contenimento della spesa sanitaria pubblica che hanno progressivamente incrementato l’elenco delle prestazioni soggette a tetti di spesa (e quindi di fatto contingentate), ricomprendendo anche casi seri come tutte le attività oncologiche, dove non è particolarmente evidente il rischio di un’offerta che generi la domanda.

Ancora, si è fatto ricorso al privato accreditato (profit e non profit): la quota di spesa sanitaria pubblica che va al privato, nonostante lo stop degli anni del COVID, è in crescita continua e supera ampiamente il 21%. Va evidenziato peraltro che il coinvolgimento di imprenditori privati ha permesso di poter contare sui massicci investimenti di questi ultimi, sempre più necessari in sanità.

Ci si è appoggiati infine su un terzo settore costituito di fondazioni ONLUS, di cooperative, di enti direttamente gestiti da congregazioni religiose: un arcipelago diffuso in tutto il paese in modo disomogeneo, che gestisce in percentuali maggioritarie i servizi a minor marginalità di reddito ed a maggiore complessità assistenziale, a partire da quelli per la disabilità. In questo modo il sistema ha potuto godere di massicce risorse aggiuntive derivati da donazioni, lasciti e patrimoni accumulati nei decenni e massicciamente utilizzati negli ultimi anni.

Va segnalato come gran parte di queste “leve” non siano più attivabili nei prossimi anni, per l’esaurimento od il superamento delle condizioni che le hanno rese possibili.

 

  1. Poi si è agito sulla riduzione di personale, spesso ormai all’osso (la carenza di medici e soprattutto infermieri è ormai pericolosissima), creando circoli viziosi veramente pericolosi. A partire dal 2011, il drastico contenimento della spesa pubblica ha determinato una graduale riduzione degli organici sanitari che certamente ha penalizzato l’appeal delle professioni sanitarie. Quando, complice il COVID, si è cercato di invertire la tendenza, ci si è trovati di fronte alla drammatica situazione attuale: i giovani (che già costituiscono classi demografiche meno numerose) non sono invogliati a entrare nel sistema per sostituire i pensionati, a causa dei carichi di lavoro e delle retribuzioni non particolarmente allettanti. Ai restanti si chiedono prestazioni eccezionali con la nascita di distorsioni sempre più inquietanti, come gli ormai famosi sanitari “gettonisti” che per alcuni anni lavorano tantissimo in diversi luoghi e contesti con l’obiettivo fondamentale di massimizzare il reddito: gli effetti collaterali sono intuibili.

Oggi sopravviviamo facendo lavorare i pensionati ed importando professionisti sanitari da varie parti del mondo, con un incremento tendenziale degli stipendi sicuramente inevitabile, ma che genererà ulteriori tensioni sulla tenuta economica del sistema.

 

  1. Che novità deve gestire la sanità italiana? Fondamentalmente si tratta dei cambiamenti demografici: l’Italia perde abitanti nelle fasce infantile e giovanili, con percentuali di decremento incredibili. Stanno riducendosi solo i giovani, per il momento non i vecchi: la famosa piramide che si rovescia. Quindi il sistema sanitario italiano dovrà, per parecchi decenni a venire, prendersi cura in grande prevalenza di anziani, vecchi ed ultracentenari che vivranno soli o quando va bene in coppie fatte da persone fragili. Allora è innanzitutto il momento di dire che trattare e programmare in modo separato il sanitario ed il sociosanitario per ragioni di contabilità pubblica e di compartecipazioni comunali e delle famiglie, è un grave limite alla creatività progettuale di cui ha bisogno questo paese. E che anche tutto il sociale c’entra moltissimo in questo percorso di riscrittura del sistema dei servizi sanitari, fino a rendere indispensabile parlare solidalmente di “socio-sanitario”. Non solo l’ospedale medio, ma anche la superspecialità ospedaliera deve fare i conti con questo cambiamento di fondo. Se non altro perché – se non lo si gestisce – genera una pressione che arriva subito ai pronto soccorso degli ospedali.

 

  1. A spesa invariata, cosa è possibile fare? Innanzitutto compiere in modo più chiaro alcune scelte, non semplici, ma necessarie. Non è sensato pensare che politiche sanitarie definite più di vent’anni fa sia a livello nazionale che a livello regionale siano ancora le migliori possibili. Sto parlando non solo dell’annosa questione del rapporto tra grandi e piccoli ospedali, ma anche dell’intera politica delle compartecipazioni, della revisione dei «Livelli essenziali di assistenza», dei prezziari e dei prontuari, cui forse vanno aggiunte alcune prestazioni, ma ne vanno eliminate altre non particolarmente determinanti. Ma soprattutto è necessario che la politica si riappropri del suo compito e chieda a tutti gli operatori del settore, (pubblici e privati, lo sottolineo), di fornire in via prioritaria le prestazioni ed i servizi che si ritengono oggi fondamentali nei vari contesti territoriali. Remunerandole in modo equo, ma rendendo impossibili o molto difficili politiche di selezione delle prestazioni o anche dei pazienti (che escludano i più complessi). La stessa quota di spesa sanitaria pubblica che va al privato accreditato più che ridotta (ridurre le prestazioni sanitarie disponibili per tutti oggi è pura follia) va riorientata in termini di priorità e controllata in termini effettivi e non burocratici. Dovremo inoltre rivedere qualitativamente gli investimenti (digitalizzazione e telemedicina-teleassistenza innanzitutto) e sviluppare in maniera significativa le risorse allo scopo disponibili. È necessario infine rivedere in modo radicale le norme di autorizzazione ed accreditamento, la classificazione dei servizi di lungodegenza, residenziali e semiresidenziali, le disposizioni strutturali e le regole gestionali di funzionamento, da decenni ferme a un mondo dei bisogni profondamente cambiato. In un contesto di riforma complessiva del modello di intervento, ciò potrebbe garantire, a parità di risorse correnti, risposte più efficaci ed efficienti ai bisogni emergenti.

 

  1. C’è un settore privilegiato da curare? La narrazione politica e giornalistica post COVID enfatizza in maniera netta la sanità territoriale e domiciliare come chiave di volta del futuro, ed i soldi del PNRR destinati alla sanità sono tutti lì, oltre che per il tentativo di sistemare e completare qualche investimento su ospedali pubblici. Ospedali di comunità e case della comunità, oltre alle cure territoriali sono il mantra che i giornali bipartisan rilanciano periodicamente da un paio d’anni. Realizzazioni concrete francamente ancora poche, ma crediamoci. Ma in un sistema in totale affanno sul piano delle risorse, economiche e professionali, chiediamoci però che senso abbia costruire ex novo con denaro pubblico strutture nuove distribuite sul territorio, quando in molte regioni e molti comuni hanno centri (RSA, strutture per disabili, poliambulatori strutturati) già operativi, spessissimo gestiti dal terzo settore, e che di fatto svolgono ruoli di riferimento per le comunità circostanti?  Non è assolutamente sensato sprecare risorse, pubbliche, non profit o private che siano. Dentro questo quadro si colloca il ruolo del terzo settore. Un mondo prezioso, che c’era prima del Welfare pubblico e che rappresenta una importante espressione delle comunità civili di questo paese. Un mondo formalmente molto apprezzato da leggi apposite, ma sostanzialmente emarginato dai pochi luoghi politici in cui si ipotizzano riforme, equiparato al privato profit in una insensata contrapposizione al pubblico, appesantito da una crisi della propria immagine pubblica che la pandemia ha enfatizzato. Dovremmo invece mettere al centro di ogni politica la valorizzazione di tutte le diverse componenti di un sistema ancora robusto e vitale.

 

Ci sarebbero tante altre questioni (pensate solo all’enorme orizzonte costituito dal sistema farmaceutico, con i relativi costi e profitti…). Ma su questo occorre continuare a discutere.

(Foto di Olga Kononenko su Unsplash)

 

  • Paolo Pigni

    Dirigente amministrativo nella sanità e negli enti locali, già direttore generale dell'Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone.