Deve essere “senza se e senza ma” la condanna degli eccidi di Hamas. Una condanna sincera, partecipe, non al modo di un atto dovuto, per poi passare ad altro. La condanna di chi si mette nei panni di un paese che sente minacciate la sua stessa esistenza e la incolumità dei suoi cittadini. Persone, famiglie, comunità. Nelle case, nelle strade, nei luoghi di studio, di lavoro, di svago. Perennemente insicuri nella propria vita quotidiana. Fa riflettere la circostanza che intellettuali ebrei illuminati, laici e di sinistra, da sempre impegnati nel processo di pace con i palestinesi e severamente critici con i governi israeliani, abbiano sentito il bisogno di denunciare un difetto di comprensione per la portata dello choc che ha traumatizzato la comunità e lo Stato di Israele.
Una intima partecipazione che tuttavia non rinunci a contestualizzare e a interrogarsi sulle radici remote e recenti del conflitto Israelo-palestinese. Per comprendere, non per giustificare ciò che è ingiustificabile per definizione ovvero l’abominio e l’orrore del 7 ottobre. Anche se non è facile, è tuttavia un preciso dovere quello di non farsi dominare dalle emozioni e dal sentimento di vendetta ma di elevarci al livello della ragione, aiutando le parti che stanno dentro il conflitto e ne patiscono le conseguenze sulla propria carne viva. Noi che non stiamo dentro quell’inferno dovremmo aiutare loro in questa vera e propria ascesi. Forse la Ue, più con più libertà e credibilità degli Usa (corresponsabili quantomeno di inerzia sulla questione palestinese, dopo Clinton), ancorché priva di un pari hard power, potrebbe esercitare sulle parti il suo potere (soft) di influenza e di persuasione. Facendole entrambe consapevoli di una verità sempre più manifesta ovvero che la sicurezza degli uni è indissolubile dalla sicurezza degli altri. Tertium non datur.
Mai dimenticare che sullo sfondo ma nella memoria viva e bruciante di Israele stanno secoli di persecuzione e di diaspora del popolo ebreo culminati nello sterminio della Shoah. Sull’altro fronte, l’esodo forzato e l’oppressione del popolo palestinese, l’occupazione abusiva dei coloni, decenni di non applicazione delle risoluzioni Onu, la colpevole rimozione, da lunghi decenni, della questione palestinese. Da ultimo con i cosiddetti accordi di Abramo tra paesi arabi moderati (?) e Israele sulla testa dei palestinesi. Altrettanto doveroso considerare la pari dignità delle vittime, tutte, e nutrire la medesima pietà verso di loro. L’amicizia con gli ebrei non dovrebbe esonerarci dal dovere di osservare un fatto: ovvero la violazione dello “jus in bello” (si vedano l’assedio e l’ostruzione agli aiuti umanitari a Gaza) da parte del governo israeliano. Così come la evidenza che la reazione di Israele si sia spinta decisamente oltre il principio della proporzionalità, nel segno di un vistoso eccesso di legittima difesa. Singolarmente grave da parte di uno Stato democratico (non di un manipolo di terroristi) che abita il consorzio civile delle nazioni. In tema di proporzionalità, lo so, la terrificante contabilità delle vittime civili non è tutto, ma deve pur contare qualcosa.
Estirpare Hamas è impresa difficile, quasi impossibile, non solo per ragioni tecniche, ma anche perché esso, piaccia o meno, è qualcosa di più di una formazione terroristica (anche se, sia chiaro, come in questo caso, compie azioni terroristiche), ma è anche una formazione politica con un suo welfare informale, che viene in soccorso di un popolo povero, oppresso e senza Stato e che le procura consenso. E dunque non la si elimina solo con le armi.
Nella sua risposta alla strage del 7 ottobre, Israele, anche perché diviso e ostaggio di un governo screditato, dà l’impressione di non disporre di visione e prospettiva circa il dopo a Gaza. L’azzardo di entrare militarmente esigerebbe invece una idea di come uscirne politicamente. Sembrano cadere nel vuoto i moniti Usa e Ue, pure amici e alleati, giustamente preoccupati per l’ulteriore espansione del conflitto. “Non ripetere gli errori Usa” ha ammonito lo stesso Biden con chiaro riferimento alla reazione americana all’11 settembre 2001. Né si è prestato ascolto a Onu e Corte penale internazionale. L’azione militare di Israele non distingue (o comunque non riesce a distinguere) tra terroristi e civili. Si sta facendo del male (montante il suo isolamento internazionale), con atti che semmai giovano all’incubazione di un ulteriore sviluppo del terrorismo tra le generazioni a venire del popolo palestinese.
Neppure aiutano la reticenza di taluni paesi occidentali nello stigmatizzare la dismisura di Israele. Peraltro, sempre più scontando una condizione minoritaria nella grande comunità internazionale attestato dall’esito delle votazioni in sede di assemblea Onu. Al punto che Putin ci si è cinicamente infilato spacciandosi per uomo di pace. A consuntivo, il rischio è che, nella sconfitta di tutti, con costi umani di proporzioni spaventose, il solo a vincere sia proprio Hamas. Il più ostile a una soluzione politica del conflitto che si fa sempre più remota. Chi vuole la pace deve fare lo sforzo di comprendere le ragioni di tutti. Da non confondere con ignavia, pavidità, opportunismo. Cioè senza rinunciare a chiamare le cose con il loro nome e a prendere parte quando è necessario. In primo luogo la parte di tutte le vittime innocenti.
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