Una giudice, non convalidando il provvedimento “di trattenimento” di un cittadino tunisino, entrato nel nostro territorio dalla frontiera di Lampedusa e richiedente protezione internazionale, ha disapplicato norme nazionali, ritenendole incompatibili con le Direttive dell’Unione Europea. Il fatto, di per sé di competenza dell’’Avvocatura dello Stato (per l’eventuale ricorso), ha assunto dimensione mediatica con la notizia che la giudice, cinque anni prima, aveva partecipato ad una manifestazione contro le determinazioni dell’allora governo giallo- verde e a difesa dei migranti trattenuti sulla nave “Diciotti”.
La questione è risultata fin da subito divisiva: da una parte il Governo, ad attribuire quella decisione alla parzialità del giudice, piuttosto che alle ragioni addotte nella motivazione dell’ordinanza; dall’altra, l’opposizione a rivendicare la tutela della indipendenza e libertà di giudizio della giudice, nonostante la sua partecipazione, nell’agosto 2018, a quella protesta.
La “querelle”, è durata quasi due settimane ed è calata di tono soltanto con il ripetersi della decisione anche da parte di altri giudici e con l’evidente necessità per il governo o di correggere la norma disapplicata o di ottenere dalla Cassazione la correzione delle ordinanze, che quella norma hanno disapplicato.
Ma quello che colpisce, di questa storia, è, da un lato, la dimensione e durezza dello scontro, infiammato anche dall’incerta provenienza di un video, risalente al 2018 e attestante la presenza della giudice ad una manifestazione, qualificata come antigovernativa; dall’altro l’accavallarsi di notizie e testimonianze, che fin troppo ricorda la “disinformazione” di orwelliana memoria.
La discussione, che ha investito principi, diritti e doveri di livello costituzionale, non ha coinvolto soltanto contrapposte parti politiche, ma anche il Governo e il Consiglio Superiore della Magistratura. La giudice Apostolico è stata accusata di parzialità per aver compiuto un gesto politico e poco ha pesato il fatto che questo fosse avvenuto in un diverso contesto, anche temporale, in cui lei era investita di funzioni diverse da quelle attuali. L’accusa, condivisa da gran parte dei media e da una percentuale di persone ben maggiore di quella che si riconosce nell’attuale Governo, non ha fatto alcuna distinzione tra il concetto di imparzialità e quello di apoliticità del giudice, quasi che sia senz’altro da escludere che un giudice possa manifestare un’opinione politica e, tuttavia, mantenersi imparziale.
Ora, lasciando a chi di dovere la valutazione del contesto e della misura del comportamento della giudice Apostolico, su cui fin troppi hanno scritto e dissertato, questa storia può servire a meglio comprendere cosa stia accadendo, nel nostro Paese, al rapporto istituzionale tra Politica e Magistratura.
Nel rispetto del diritto di tutti i cittadini di “accedere alle cariche elettive e di conservare, a mandato concluso, “il posto di lavoro” (art.51 co.1 e 3 Cost.), i padri costituenti lasciarono al futuro legislatore (art. 98 co.3) la possibilità di limitare il diritto dei magistrati di iscriversi ai partiti politici, ma non posero alcun limite al loro diritto di candidarsi alle elezioni, politiche o amministrative, o alla loro chiamata, da parte della politica, ad incarichi istituzionali; neppure ritennero di occuparsi del rientro in ruolo dei magistrati, una volta conclusa la loro esperienza politica.
Questi vuoti normativi sono sopravvissuti per i decenni successivi, senza che nessuna seria iniziativa sia stata promossa: non dalla politica, che poteva giovarsi della competenza giuridica dei magistrati nei difficili e delicati settori legislativo e carcerario; come pure poteva affidare incarichi di governo a quanti di loro fossero noti al pubblico per l’autorevolezza guadagnata in importanti processi; ma neppure dalla magistratura, che vedeva riconosciuto il diritto costituzionale dei suoi componenti di accedere, come ogni altro cittadino, alle cariche elettive.
Del resto, nonostante non mancassero, da entrambe le parti, critiche severe, questa situazione, anche perché numericamente contenuta, per molti anni ha prodotto al nostro sistema più vantaggi che danni. Il fatto che un magistrato, pur senza esservi iscritto, si trovasse a rappresentare un partito in Parlamento o lavorasse, comunque, per una parte politica, non suscitava alcun serio scandalo; così come non lo suscitava la situazione assai meno accettabile, che si creava quando il magistrato entrato in politica, chiedeva di rientrare nel suo precedente ruolo giudiziario. Bastavano, a tener bassi i toni, le norme che tenevano territorialmente distinte le attività svolte (o da svolgere) dal magistrato nell’uno o nell’altro campo.
Tutto questo è tanto vero che si deve arrivare all’anno 2006 perché il legislatore, con la legge n. 269, utilizzi la possibilità, lasciatagli dalla Costituzione quasi 70 anni prima, per definire come illecito disciplinare sia l’iscrizione, sia la partecipazione sistematica e continua di un magistrato a un partito politico. E siamo soltanto all’inizio di un nuovo capitolo, ben descritto nel “Rapporto tra politica e giurisdizione”, deliberato dal Consiglio Superiore della Magistratura (seduta del 21 ott.2015) per motivare perché sia venuto il momento di “affrontare in modo organico e propositivo il tema dell’impegno in politica dei magistrati”. Premesso che “la materia va affrontata tenendo conto della recente evoluzione del ruolo della giurisdizione nelle società contemporanee”, il CSM spiega perché, in realtà, sia venuto il momento “di garantire una effettiva e visibile separazione tra giustizia e politica e quindi di individuare le condizioni affinché certe opzioni del singolo magistrato non danneggino la credibilità dell’intera giurisdizione”. E le ragioni sono presto dette: da una parte “una giurisdizione fisiologicamente chiamata ad intervenire in settori nuovi, […] quali la libertà di religione o le questioni eticamente sensibili, come la condizione dei migranti e il diritto di asilo”; quindi una Magistratura, “già in prima linea nei grandi fenomeni sociali del terrorismo, della corruzione e del crimine organizzato”, chiamata, “data la sua natura di potere diffuso con l’obbligo di non denegare giustizia”, a dare tempestive risposte.
Dall’altra parte, “la crisi della rappresentanza dei partiti, che ha portato alla affermazione di leadership personali o di partiti carismatici formati non su un programma ma sulla figura mediatica del candidato di turno”.
Tanto bastava perché la Magistratura cominciasse a prendere le distanze dalla Politica, facendosi portatrice delle proposte legislative, destinate a interrompere l’intreccio ben sintetizzato dai media nell’immagine delle “porte girevoli”.
La legge delega n.71, emanata nel 2022 con l’approvazione del governo Draghi, si è fatta buona interprete di questa esigenza con la nuova rigorosa disciplina della eleggibilità, dell’aspettativa e del rientro dei magistrati, con riguardo sia alle elezioni politiche e amministrative, sia all’assunzione di incarichi di governo nazionale, regionale o locale.
Ma quella che da questa legge esce senz’altro ridimensionata è la rispettosa vicinanza, tra Magistrati e Politica, praticata nel passato della nostra Repubblica e sopravvissuta, con qualche affanno, persino allo tsunami di “mani pulite”.
Il caso Apostolico, con il suo impasto tra i diritti umani dei migranti e il diritto di libera manifestazione del pensiero della giudice, sembra fatto apposta per avvertire come il clima divisivo, che sta appestando il mondo, non risparmi neppure i rapporti tra le istituzioni democratiche del nostro Paese.
Così, mentre la distinzione tra imparzialità e apoliticità, pur così chiara ai nostri Padri costituenti, sembra destinata a dissolversi in una confusione sempre più generalizzata, che comincia, non a caso, dalle parole, in questa temperie può essere di qualche utilità consigliare a quei magistrati, che li avessero dismessi, di recuperare modi e comportamenti appropriati all’imparzialità del loro ruolo.
Ciò senza, peraltro dimenticare che la vera difesa del giudice sta nella motivazione delle sue decisioni: quell’obbligo costituzionale, che gli costa fatica e onestà intellettuale, ma che gli consente di esprimere e illustrare alle parti del processo e ai giudici dei successivi gradi di giudizio, non meno che al pubblico, tutte le ragioni giuridiche, ma anche morali e umanitarie delle sue scelte.
(Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash)