Dobbiamo essere grati ai genitori di Ernesto Ruffini, stimato direttore dell’Agenzia delle entrate, ovvero di una delle postazioni più impegnative e scomode dei vertici della pubblica amministrazione, nonché autore del ponderoso saggio titolato “Uguali per Costituzione” edito da Feltrinelli, perché, come l’autore confida nei ringraziamenti in coda al libro, essi (i genitori), al compimento del suo diciottesimo anno, gli fecero dono degli otto corposi volumi che raccolgono gli atti dei lavori dell’Assemblea costituente. Lì affondano le radici la sua passione e il suo accurato studio della genesi e dell’elaborazione della nostra Carta fondamentale. Ruffini ci restituisce efficacemente l’intensità morale, intellettuale, emotiva di quell’evento generativo della nostra Repubblica democratica. E lo fa – questo, a mio avviso, il merito principale del suo lavoro – attingendo in abbondanza alle parole dei protagonisti. Ovvero dei nostri padri costituenti. Dandoci la misura della loro statura e soprattutto della loro lucida consapevolezza della portata storica di quel passaggio. Nonché dell’altezza di quel confronto-dialogo nel quale ebbero modo di esprimersi i rappresentanti dei partiti e delle rispettive culture politiche cui dobbiamo la conquista della democrazia. Un “crogiolo ardente” lo definì Dossetti, secondo il quale il miracolo dell’unità (la Costituzione fu approvata da una larghissima maggioranza) in un mondo profondamente diviso si spiega in ragione del trauma di “quell’evento globale” che fu la seconda guerra mondiale con il suo drammatico corredo di sessanta milioni di morti. Una sintesi alta di correnti politico-culturali diverse e spesso in contrasto tra loro che sortì, come usa dire, un compromesso. Ma nella sua accezione alta. Come poi notò lo storico Pietro Scoppola, com-promesso da intendere come “promettere insieme”, come impegno concorde a dare vita a uno Stato autenticamente nuovo. In aperta discontinuità naturalmente con lo Stato totalitario fascista (e Ruffini lo rimarca sistematicamente sotto molteplici profili: non più l’uomo per lo Stato ma lo Stato per l’uomo), ma anche rispetto allo Stato liberale prefascista. Anche perché si trattava, per la prima volta, di una Costituzione figlia della scelta repubblicana del 2 giugno 1946 che gli italiani si davano da sé, non di uno statuto “concesso” (“octroyée”) dal sovrano. Come fu lo Statuto albertino.
Tra le sottolineature proposte in apertura, due in particolare: la cura per le parole e la rigidità costituzionale. Giustamente Ruffini segnala la singolare cura dei costituenti per un linguaggio semplice, chiaro, sobrio. Il biglietto da visita della nuova Repubblica doveva essere accessibile e compreso dai cittadini. Appunto finalmente cittadini, non più sudditi di un sovrano, ma sovrani essi stessi. E’ noto che il testo della Carta fu sottoposto anche al vaglio di eminenti linguisti. In secondo luogo, la rigidità costituzionale. Da intendere come condizione affinché si potesse fare affidamento sulla tenuta dei principi e delle regole in cui si concreta il patto di convivenza dentro la “casa comune” (metafora della Repubblica cara a Giorgio La Pira), pur nel fisiologico avvicendarsi di maggioranze politiche tra loro diverse. Una rigidità assicurata dalla procedura cosiddetta “aggravata” prescritta per la sua revisione, che significa maggioranze larghe, doppia lettura, tempi distesi. Nella convinzione che la Costituzione, per sua natura, deve essere un fattore di unità e di stabilità. E che, segnatamente, quella che si stava elaborando, potesse e dovesse durare nel tempo. Così è stato a conferma del suo carattere, come si è detto, presbite. Stilata da uomini che sapevano guardare lontano. Costituzione rigida, ma – non è contraddittorio – anche plastica. Mi spiego: ovvio che dopo settantacinque anni sia maturata una sensibilità per nuovi diritti allora meno avvertiti (e bene si è fatto di recente a introdurre il tema ambientale), e tuttavia la gran parte dei diritti già allora scolpiti nella prima parte sono suscettibili di una interpretazione estensiva, incrementale e dunque inclusiva. Così da non necessitare che si inseguano tutti e singoli i cosiddetti nuovi diritti per inscriverli in Costituzione.
Ruffini ha fatto una scelta precisa, fissata già nel titolo. Egli ha assunto il principio fondamentale dell’uguaglianza scolpito nell’art.3 come punto di vista sintetico. Una scelta motivata. Sia perché si tratta di uno dei pochi “principi fondamentali” (insieme a quelli personalista, democratico, lavorista, pluralista, autonomista, dell’internazionalismo e della pace ex art.11); sia perché esso effettivamente riveste una valenza sistemica o olistica; sia perché, come è noto, esso rappresenta forse il profilo più innovativo del nuovo Stato. Uno Stato non indifferente e neutrale, ma che attivamente interviene al fine di assicurare i “diritti sociali” e che più complessivamente pone le basi costituzionali del nostro welfare state. A detta di Romano Prodi, la più preziosa conquista del novecento europeo. Autorizzandoci così a definire il nuovo Stato lì disegnato uno Stato democratico e sociale. Di nuovo marcando la discontinuità rispetto alle angustie e all’elitarismo del vecchio Stato liberale.
Qui si situa la discussione sul cosiddetto preambolo della nostra Costituzione. Ruffini vi fa cenno. Forse, mi permetto, un po’ troppo avallando un’accezione limitativa del concetto di preambolo. Alla Costituente se ne discusse. Tra chi lo considerava ridondante, enfatico, ultroneo, non congeniale a un testo giuridico e chi si batté (vi fu un efficace intervento di Moro al riguardo) affinché quei principi non fossero affatto intesi come generiche aspirazioni confinate in un preambolo privo di valore ed efficacia giuridica. Ma, all’opposto, decisivi per orientare stabilmente in futuro il legislatore ordinario. Provvidenzialmente prevalse questa seconda visione. Dunque la circostanza che quei principi figurino in apertura rispetto alle due più estese parti seguenti (su diritti e ordinamento) non rappresenta una diminutio. Semmai il contrario. Essi sono la stella polare che illumina e orienta la tavola dei diritti e l’architettura dello Stato. Almeno nei propositi dei costituenti. La domanda che ne consegue è se e in che misura così sia stato. E’ il tema dell’attuazione ovvero dello scostamento dai proclamati principi.
Lo studio di Ruffini passa appunto in rassegna lo stato di attuazione, in sede legislativa, del principio di uguaglianza in vari campi: nella giustizia, nella libertà delle opinioni, nell’informazione, nella disciplina delle religioni, nella famiglia e circa i figli, nella scuola, nella sanità, nel lavoro, nell’immigrazione, nelle carceri, nei partiti, nel fisco. Quest’ultima è naturalmente la materia di più stretta competenza e coinvolgimento professionale dell’autore. Ma egli non si mostra reticente nel segnalare le stagioni di un riformismo illuminato e quelle di una regressione rispetto al principio fissato dall’art. 53 (capacità contributiva del contribuente e progressività). Denunciando apertamente certe derive demagogiche e irresponsabili cui pochi politici sanno sottrarsi (il fisco come pizzo di Stato, le mani nelle tasche degli italiani, condoni, sanatorie, flat tax…) e, per converso, argomentando in positivo come la fedeltà fiscale sia un caposaldo del patto di convivenza, privilegiato strumento di redistribuzione e di solidarietà, essenziale sostegno per l’apprestamento di servizi essenziali alla comunità (sicurezza, sanità, assistenza, scuola, trasporti…). In verità, non solo con riguardo alla materia fiscale, Ruffini non elude problemi che, negli anni, sono stati oggetto di vivaci controversie politico-legislative. Dalle leggi ad personam, all’assetto radio-televisivo, alle leggi elettorali, alle controversie su taluni diritti civili. Non è cosa scontata e agevole per un alto funzionario dello Stato. Egli lo fa senza reticenza ma con equilibrio. Congrua attenzione è altresì riservata al problema del rapporto tra legislazione e amministrazione, ai rischi connessi alle rispettive invasioni di campo. Efficienza e imparzialità della pubblica amministrazione e, più in genere, cura per il know how ovvero per una implementazione delle decisioni pubbliche, come è noto, evocano problemi che il nostro paese si trascina dietro da gran tempo.
In sintesi, molti i meriti dell’opera di Ruffini: la vivida rappresentazione dell’intensità dell’evento sorgivo nonché laboratorio della Repubblica, cioè la Costituente e i suoi eminenti protagonisti; la giusta enfasi sulla radicale discontinuità della nostra democrazia costituzionale rispetto allo Stato totalitario fascista; la scelta di privilegiare il punto di vista del principio fondamentale dell’uguaglianza, forse effettivamente il più nuovo e impegnativo, virtualmente generatore di una “rivoluzione sociale” (pacifica, per via politica, non intesa come rottura dell’ordinamento); l’esame puntuale e analitico, sui molteplici profili della vita associata, dello stato di attuazione piuttosto che di mancata o insufficiente attuazione del principio fissato nell’art. 3; un giudizio equilibrato nell’apprezzamento per la strada oggettivamente percorsa e quella ancora da compiere; il decisivo contributo offerto dalla Corte costituzionale nel garantire la conformità delle leggi ai principi e alle regole della “legge fondamentale”. Un quadro complessivo che – ma questa naturalmente è considerazione mia – mi conferma nella convinzione che oggi, dopo quarant’anni di estenuante dibattito sulle riforme costituzionali che hanno sortito pochi risultati e qualche deragliamento, sarebbe saggio applicarsi con più cura al tema della Costituzione ancora inattuata. Valga come monito a chi, di nuovo, ci vuole mettere mano magari a colpi di stretta maggioranza politica e intaccando la terzietà degli alti organi di garanzia come la Presidenza della Repubblica. In un tempo politico, quello attuale, nel quale non mi pare brilli la stessa sensibilità per il principio di uguaglianza formale e sostanziale.