Il decreto Caivano letto ad alcune settimane di distanza dai fatti violenti che hanno portato alla “risposta” dell’autorità istituzionale è davvero fonte di grande preoccupazione. Insistentemente Gaetano De Leo, psicologo giuridico tra i più grandi d’Europa’, sottolineava nei suoi testi e nei suoi interventi sulla devianza minorile che la “violenza calda”, quella agita contro l’altro, contro di sé, contro le cose “fa molto rumore”.[1] È una violenza che “copre tutto col rumore”, nasconde, toglie l’attenzione dalle domande fondamentali: cosa (ci) vuole comunicare? quale segnale (ci) manda? cosa vuole esprimere? Di cosa sta nascondendo l’espressione in chi la sta agendo? A lui stesso, oltre che a noi.

La prima sfida è trovare la parola per dirla, per dirne narrazioni, moti, moventi, insorgenza, insistenza. Per riportarla nella comunicazione, nel senso, nel significato. Poi, con tutto il tempo ed il lavoro che servirà, nel campo anche della restrizione e della punizione che apra così alla responsabilità e alla valutazione, al giudizio e alla riconsiderazione di sé, nella relazione con altri, e col mondo. Qui può avvenire la vera maturazione di una “frattura instauratrice”[2] per l’identità e la biografia personale, non tanto là, nell’incandescenza dell’agito. E neppure nel consolidamento, nella cristallizzazione d’una “carriera criminale”. Poiché il rischio grande è di fissare nel gesto la identità di un giovanissimo, una giovanissima facendolo diventare ciò che ha agito, sentito, giocato di sé. Ha un potere ordinatore il gesto deviante, il reato; può costituire identità e destini di ragazze e ragazzi fragili e disorientati, dalla immagine di sé frammentata, discontinua, scomposta e ricomposta nell’agire immediato e reattivo, in relazioni dure e fragili come cristalli.

Provvedimenti solo punitivi, stigmatizzanti, che separano e distinguono storie e biografie da contesti di vita comunitari e da relazioni, possono solo irrigidire e “ordinare” vicende di minori in rischi d’avvio di “carriere”. La cultura securitaria può produrre proprio il contrario di quel che cerca. Nell’ansia dell’immediatezza e per ottusità o parzialità di lettura.

Un intervento serio e tempestivo per aprire nei contesti, e con i minori coinvolti, serie ed esigenti esperienze educative e di responsabilità sociale, può creare nel meccanismo deviante una frattura. Nella quale scoprire parti di sé affidabili, esperienze sociali segnate da valori e inclusività, messe alla prova e spazi di libertà responsabile

Nulla di semplice, certo, lavoro per adulti competenti e appassionati, per insegnanti, amministratori, operatori dei servizi, imprenditori, cittadini che curano la comunità. Nelle loro risorse e nelle loro ferite.

Scoprire altro di sé, ritrovarsi in un altro ordine possibile e in legami nuovi e diversi è questione di prova di realtà (non solo di volontà), di pratiche che orientano scelte. Non può essere frutto di astratti richiami, o del solo sforzo di adeguare comportamenti a leggi e norme, è la sfida dell’educare, del costruire rapporti costruttivi tra le generazioni.

Certo occorre superare prospettive riduzioniste e deterministiche. E vedere in profondità ed ampiezza. Per esempio vedere che non c’è una emergenza reati dei minori (erano più numerosi nel 2015/16); semmai lo è quella segnalata dai servizi di salute mentale che di minori si occupano.

Interrompere il costituirsi di carriere criminali è un obiettivo difficile e complesso. Chiede percorsi inediti e alternativi per le persone, la possibilità di ridisegni e ridislocazioni in esperienze e prospettive che abbiano la forza, da un lato, di far sostenere fratture biografiche, nell’identità, nei sistemi di significato e, dall’altro, di avviare un’organizzazione diversa del sistema di vita, del rapporto con il tempo.

Insieme è necessario creare novità, contraddizioni, nuove rappresentazioni e avvii di storie nei contesti di vita che alimentano atteggiamenti, scelte e legittimazioni di devianza; contesti di anomia e separazione indifferente.

“Non c’è stata in loro una scelta tra bene e male: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà”, così scriveva dei ragazzi di vita Pier Paolo Pasolini sul Corriere della Sera il 18 ottobre del 1975 dopo una violenza su un senza fissa dimora. Pasolini, che sarebbe stato vittima dopo pochi giorni della violenza non frenata dalla pietà, segna bene la soglia sulla quale si attiva: la soglia dell’atrofia del sentire, la “mancanza di ogni pietà”. Incapacità di sentire sé e sentire l’altro, del sentirsi nella relazione, al suo livello originario, là dove nasce la pietà, e si frena la cecità del gesto distruttore. Prima della morale.

Riprendere quel gesto in una narrazione, ritrovare sé e la pietà in una relazione ritrovata, assumere i significati  e le conseguenze del gesto, a  volte irreparabili, e riprendere faticosamente una possibilità di scelta e di risposta (risponderne), è il difficilissimo cammino che provano a sostenere educatori, psicologi, operatori coinvolti nell’azione trattamentale e riabilitativa, coinvolti nell’azione educativa (che noi chiamiamo riduttivamente trattamentale e riabilitativa).

Educare fa sempre un po’ male, pone domande esigenti, comporta incontri difficili. Con sé e con altri. Non parte da disponibilità o dall’aver già maturato una domanda di trasformazione. Crea e propone contesti di prova, lavora su motivazioni, responsabilità; conduce a possibilità di riscatto e riconciliazione, nel tempo. Così si chiede molto, e “si fa un po’ male”, a sé e all’altro, ma si è nella presenza, testimoniando che non tutta la convivenza  ricaccia nel margine, nel cono d’ombra, nell’abbandono chi ha fatto del male. Sintonizzarsi con il soffrire delle vittime e con il disagio sociale è un passaggio maturativo essenziale.

Nella stagione securitaria che chiede di applicare una strategia “educativa” normativa ”efficace”, correttiva, selettiva, meritocratica, prestazionale, contratta sulla dinamica premialità-punizione, quel che si produce rischia di essere un disimpegno di fatto (e di coscienza) degli adulti. Perché dovrebbero provare ad ascoltare, a incontrare, ad aprire esperienze per e con le giovani vite di minori?  Richiami a norme, sanzioni, delega a “specialisti” correttori possono ben bastare! E un solco, un distanziamento, sociale ed esistenziale, tra le generazioni cresce ed entra nelle vite e nelle storie. Anche delle comunità.

[1] G. De Leo, P. Patrizi, La spiegazione del crimine. Un approccio psicosociale alla criminalità, Il Mulino, Bologna, 1999; G. De Leo, La devianza minorile. Metodi tradizionali e nuovi modelli di trattamento, Carocci, Roma, 1990

[2] M. de Certeau, La debolezza del credere, Città Aperta, Troina (Enna), 2006

(Foto di Aedrian su Unsplash)

 

 

  • Ivo Lizzola

    Professore ordinario di Pedagogia sociale e di Pedagogia della marginalità e del conflitto e della mediazione presso il Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università di Bergamo.