Ha avuto una certa eco nell’opinione pubblica l’ottantesimo anniversario della settimana di studio di Camaldoli del Movimento laureati (18-24 luglio 1943) in cui fu avviato il lavoro per il famoso Codice. La partecipazione contemporanea del presidente della Repubblica e del presidente della Cei al convegno di luglio naturalmente ha avuto il suo significato. Ma si sono susseguite e stanno continuando anche altre iniziative di studio e riflessione culturale, tutt’altro che trascurabili.

Vale la pena di notare che tanto dispiegamento di attenzione si è dedicato a un anniversario non proprio preminente: quella settimana fu infatti organizzata un po’ di fretta, iniziò a lavorare per mettere le basi di un “testo di cultura sociale” aggiornato, ma non concluse molto se non una serie di “Enunciati” ancora piuttosto generali, anche perché le notizie che arrivavano da Roma e il disfacimento politico in corso della dittatura consigliarono di chiudere rapidamente l’incontro con un giorno di anticipo. Per cui il vero lavoro per il cosiddetto “Codice di Camaldoli” si sarebbe svolto nei mesi successivi, nella Roma occupata dai tedeschi, con il contributo di un piccolo gruppo clandestino (Paronetto, Saraceno, Vanoni, con qualche contributo integrativo esterno, tra cui Capograssi, Nosengo e Ludovico Montini, oltre a un gruppo di consulenti teologi): il volumetto avrebbe visto poi la luce con il titolo Per la comunità cristiana. Principi dell’ordinamento sociale a cura di un gruppo di studiosi amici di Camaldoli, solo nel 1945, a vicende del dopoguerra ormai già instradate. E possiamo qui notare che sui giornali c’è stata anche qualche enfasi eccessiva sulla rappresentatività della settimana: molti hanno citato presenti Andreotti e Moro, che non risultavano tra i partecipanti.

Si potrebbe quindi riflettere – in termini di peso attuale della memoria storica – sul fatto che si sarebbe potuto ricordare con almeno altrettanta attenzione l’ottantesimo della costituzione di un partito come la Democrazia cristiana, che peraltro non ebbe una data di fondazione chiara, ma sicuramente si presentò alla luce proprio nelle settimane confuse ed esaltanti tra il 25 luglio e l’8 settembre. Invece, a parte un articolo di Marco Damilano su «Il Domani» del 16 luglio, a mia conoscenza, non se ne è affatto parlato.

Il Codice, in effetti, non si può considerare il manifesto della nascente Dc, che aveva avuto già i suoi documenti programmatici diffusi proprio nel 1943, quanto piuttosto il contributo più sintetico di uno dei gruppi che confluirono alla fine nel nuovo partito: i giovani intellettuali del Movimento Laureati, eredi del percorso formativo che tanto doveva al progetto di mons. Montini sviluppato sotto la dittatura. La fusione non fu affatto facile, tanto che ci furono percorsi personali a volte tortuosi: Taviani inizialmente aveva aderito al Partito cristiano-sociale di Bruni, Paronetto era contrario a un partito di unità cattolica, mentre Fanfani nell’esilio svizzero e Dossetti nella Resistenza solo gradualmente accettarono il nuovo partito e Moro ne fu tenuto ai margini fino al 1946 nella situazione locale barese. Insomma, la nascente Dc non fu una fusione facile di tendenze culturali, che già allora erano sensibilmente diverse, come aveva dimostrato la storia dei rapporti complessi con la dittatura. La Dc non nacque come “partito della Chiesa”, ma certamente fu costruita (da De Gasperi in primis) in modo da ottenere il consenso più allargato possibile: per divenire il partito dell’unità dei cattolici, e quindi poter portare un contributo forte alla transizione democratica, c’era bisogno di una certa flessibilità. E questo fu senz’altro un tratto distintivo: la capacità di integrare posizioni diverse, a volte accostandole, a volte sintetizzandole.

Se storicamente si vuol cogliere il senso del contributo specifico del gruppo di Camaldoli in questo quadro articolato, allora, va colto soprattutto in un punto: i “giovani” intellettuali esprimevano rispetto ai popolari della generazione degasperiana un approccio molto più aperto all’intervento pubblico in economia, nella logica della riflessione sulla grande crisi degli anni Trenta e del conseguente obiettivo di superare un modello di capitalismo liberale a “Stato minimo”. Era la legittimazione della nuova “economia mista”, verso cui c’era stato tradizionalmente molto sospetto cattolico. Si può articolare quanto vogliate in termini storici questo ragionamento, ma qui sta il punto. De Gasperi e i suoi amici erano in contatto da qualche anno con Paronetto (che non a caso lavorava all’Iri), e avevano parallelamente avviato un dialogo sulle novità delle tendenze del rapporto politica-economia, ma la vecchia generazione popolare era legata a un approccio minimalista e liberista, che si collegava a una visione molto prudente sulle prospettive di sviluppo dell’economia italiana (legato a un secolare equilibrio agricolo-commerciale), e che era stato ancora più irrigidito dall’opposizione al dirigismo fascista.

La nuova generazione introdusse invece una decisa apertura alla responsabilità statuale nella limitazione a fini sociali della proprietà privata, nell’uso redistributivo dello strumento fiscale e nel sostegno dello sviluppo economico, che sganciava molte delle novità anche istituzionali degli anni Trenta dal nesso con il fascismo (qui ci sarà la base del mantenimento in vita dell’Iri e dell’Agip, che all’inizio quasi tutti volevano smantellare dopo il 1945). Questo filone di pensiero entrerà certamente nell’equilibrato concetto costituzionale dello Stato che riconosce (e non costituisce) libertà e diritti, ma al contempo è dotato di un compito propriamente etico: la rimozione degli ostacoli che impediscono la piena cittadinanza.

Stupisce che – come si legge su «Il Sole 24 ore» del 24 agosto – in un intervento a un ulteriore convegno camaldolese, Stefano Ceccanti attribuisca al Codice un’impronta non statalista perché «esso si collegava alle economie e alle società aperte dell’area occidentale euro-atlantica mentre nell’impostazione di un altro esponente della sinistra cattolica come Dossetti quel vincolo non ci doveva essere e il paese doveva abbracciare un’opzione neutralista, collegata a un obiettivo ben più elevato di rifacimento dall’alto della società civile». A me pare piuttosto che il tema dell’intervento pubblico nell’economia fosse la questione cruciale comune del momento, dentro all’orizzonte delle democrazie occidentali dell’epoca, tutte spinte dagli eventi a evolversi in Stati democratici e sociali moderni.

A parte ogni riflessione sul neutralismo di Dossetti (a mio parere inesistente, ma soprattutto al limite questione di cui discutere rispetto al 1949), occorre sottolineare che nel 1943-45 e poi anche nella scrittura della Costituzione, senz’altro Dossetti e Taviani (o Vanoni e Saraceno) si trovassero più vicini tra loro di quanto tutti loro fossero invece vicini a Scelba, Malvestiti o De Gasperi, proprio rispetto al tema dell’intervento dello Stato nell’economia. Questo mi pare il punto storico da mettere in luce.

La Dc nascente teneva quindi dentro diverse anime, che talvolta convissero e si fusero in una prospettiva alta (come ad esempio nel lavoro costituente), ma che dovevano mettere capo nel giro di qualche anno a un dualismo di sensibilità e di accentuazioni piuttosto divaricato. Di fronte alla questione delle riforme del centrismo (piena occupazione contro stabilità della lira) o del centro-sinistra (nazionalizzazione dell’elettricità contro rigetto dalla riforma urbanistica) questo pluralismo causò scontri e tensioni. Che paradossalmente non portarono mai alla rottura del partito, per cinquant’anni, a conferma della sua flessibilità originaria. Ma certo ne condizionarono e a tratti limitarono l’apporto storico alla guida della società italiana. E questo è un punto che dalla consapevolezza storica può arrivare a far capire molte cose di lungo periodo, in gioco ancora oggi.

(Foto: www.monasterocamaldoli.it)

 

 

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.