Confesso subito un mio dubbio, scusandomi per il bisticcio: ha senso interrogarsi sul senso politico della stucchevole saga/tormentone della disfida tra i due egolatri del Terzo Polo? Forse sbaglio a occupamene, forse ha ragione chi derubrica la faccenda a materia ascrivibile alla comicità involontaria. Più congeniale alla satira che alla politica. Assimilabile alla sfida gladiatoria tra Musk e Zuckerberg che – Calenda stesso dixit – evoca il bullismo tra gli adolescenti. E, dunque, occuparsene è di per sé fuori luogo, tempo e “inchiostro” sprecati, un regalo immeritato ai due ineffabili, litigiosissimi protagonisti. E tuttavia, forse, malgrado loro, qualche riflessione politica può essere proposta.

La prima verte sulla rispettiva “vocazione politica”. Vistosa la differenza tra i due. A prima vista, Renzi, di vocazione politica, disporrebbe in abbondanza. Salvo subito precisare che, nel suo caso, vocazione politica significa attitudine manovriera, spregiudicato tatticismo. Al modo del Ghino di Tacco di craxiana memoria. Un campione del ricatto politico. Non esattamente una concezione e una prassi della politica ancorata a una visione perseguita con coerenza. Un funambolismo che ha condotto il suo artefice a propiziare governi, che poi ha preso gusto a sabotare; a raccontarsi prima come leader della sinistra e ora a rappresentare oggettivamente la stampella del governo più di destra della storia repubblicana. Da leader dello schieramento alternativo al centrodestra a guida berlusconiana sino all’attuale, sempre più evidente aspirazione a succedere al Cavaliere. Nel suo stesso posizionamento politico (FI) e nelle sue battaglie. Dalla giustizia al fisco. Per converso, Calenda trasmette l’impressione di essere “impolitico”, geneticamente refrattario a ogni mediazione. Si dice: capace di litigare persino con se stesso. In nome di un pragmatismo che, paradossalmente, si rovescia in un feticcio ideologico. Per di più rivendicandone l’esclusiva e bollando chi la pensa diversamente come per definizione (sua) estremista. Un fondamentalismo “serioso” e presuntuoso stigmatizzato anche da suoi estimatori come Giuliano Ferrara. Una differenza tra i due, a pro di Calenda, è tuttavia innegabile: nel modo – si può ancora dire etico? – di concepire la politica. Nel caso di Renzi manifestamente incline alla commistione tra affari e politica (un ulteriore tratto che, nel suo piccolo, lo assimila all’ineguagliabile maestro di Arcore). Sotto questo profilo, quello di Renzi è sempre più un caso che con la politica ha poco a che fare. Le sue posizioni sono dettate da interessi altri. Essenzialmente di potere e di arricchimento personale.

Qui dunque lo schema si rovescia: sarebbe semmai Calenda a meritare di assurgere a caso politicamente interessante. Egli però sconta due limiti. Il primo: la cifra ideologico-politica che più corrisponde alle sue issues, cioè alle concrete politiche che egli propugna è quella di un conservatorismo liberale. Quello de “la destra che vorremmo”. Ma che, in Italia, è sempre stato marcatamente minoritario. Tanto più oggi ove domina una destra di tutt’altro segno. Il secondo limite è diciamo di natura identitaria: la pretesa, inscritta nella stessa denominazione del suo partito (Azione), di ispirarsi alla nobile tradizione del Partito d’Azione. Il partito di Spinelli, di Bobbio, di Foa che furono indiscutibilmente uomini di sinistra. Liberali sì ma non conservatori e liberisti. Uomini che allora non esitarono a operare una scelta di campo. Una scelta che, tanto più, si imporrebbe oggi, crollato il comunismo e montante una destra illiberale. Dunque una identità politica irrisolta e persino contraddittoria: di destra (conservatrice e liberista) ancorché non assimilabile alla destra sovranista nostrana, Calenda, contestualmente, si dichiara di ascendenza azionista. Il Calenda capace di litigare con se stesso è certo una iperbole, una battuta irridente dei suoi detrattori. E tuttavia, a ben riflettere, essa può acquisire una certa plausibilità se intesa, come si è accennato, nel senso di una contraddizione politica irrisolta tutta interna al partito di Calenda e forse a lui stesso. Una identità irrisolta che non può essere esorcizzata con l’abituale appello al pragmatismo. Si consideri il caso di queste ore: stride con il suo rivendicato pragmatismo, cioè l’ancoraggio ai fatti e alla loro evidenza, il credito francamente esagerato che egli mostra di assegnare alla disponibilità negoziale, a dire poco tardiva e ambigua, della premier Meloni in tema di salario minimo e lavoro povero. Stressa (ed esalta) il metodo, al punto da definire storico l’abboccamento a palazzo Chigi, per esorcizzare la chiara distanza sul merito. Non esattamente un atteggiamento consono al gene del riformismo che dovrebbe semmai privilegiare la considerazione del merito delle questioni.

Più in genere, il suo pragmatismo dovrebbe suggerirgli di fare i conti con la realtà dei fatti ovvero con una polarizzazione politica che condanna chi non si schiera alla marginalità. Limiti soggettivi (indisponibilità alle mediazioni) e contraddizioni politiche (una sigla progressista e un profilo da destra liberista) rendono ragione delle difficoltà di Calenda. Ed è un peccato, perché, va ribadito, a differenza del suo amico/nemico, per la politica intesa come sincera cura per il bene comune egli potrebbe rappresentare una risorsa. E perché una qualità rara gli va riconosciuta: quella di battere sistematicamente su uno storico problema italiano ovvero la colpevole negligenza nell’occuparsi del know-how, dell’implementazione e della messa a terra delle decisioni pubbliche ai vari livelli di governo.

(Foto: www.ilfattoquotidinao.it)

 

 

  • Franco Monaco

    Pubblicista, già presidente dell’associazione «Città dell’uomo» e parlamentare della Repubblica; fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.