1. Chi sono i poveri secondo la legge?

Qualcuno prima o poi, riuscirà a spiegare la irrefrenabile pulsione del legislatore, quando interviene in materia di contrasto alla povertà, a sminuzzare la categoria dei “poveri” in cervellotiche sottocategorie.

Una divisione l’aveva fatta anche il legislatore del reddito di cittadinanza (Rdc) nel 2019, incanalando i beneficiari della prestazione, da un lato in un “percorso lavorativo” (affidato ai centri per l’impiego e riservato a coloro che erano stati espulsi dal mercato del lavoro da non più di due anni) dall’altro in un “percorso sociale”, affidato ai servizi sociali dei comuni e riservato ai portatori di bisogni più complessi, con scarse possibilità di reinserimento lavorativo. Una ripartizione che si è rivelata macchinosa, ma che aveva una sua logica e che soprattutto manteneva identico per entrambi i gruppi l’importo riconosciuto per superare la condizione di bisogno (500 euro al mese incrementate in relazione alla condizione familiare e al canone di locazione).

Una volta avviato l’iter di cancellazione del Rdc, ha fatto irruzione nel dibattito politico la nuova divisione tra “occupabili” e “non occupabili” della cui irragionevolezza si è già detto su questo sito (https://appuntidiculturaepolitica.it/2023/03/05/tre-domande-a-proposito-del-reddito-di-cittadinanza/).

Ma, al momento di mettere nero su bianco le nuove norme (con il decreto legge n. 48/2023) le due categorie si sono immediatamente sbriciolate. Ed è incredibile che siano invece sopravvissute nei talk show televisivi, ove ancora oggi i rappresentanti della maggioranza affermano serenamente (senza che il giornalista di turno muova obiezioni) che il governo avrebbe escluso dalla prestazione solo i fantomatici “occupabili”.

Basterebbe leggere le norme per sapere che non è così. La nuova prestazione (ora denominata “assegno di inclusione”, di importo analogo al precedente) viene infatti riservata a nuclei familiari che abbiano tra i componenti figli minori, oppure ultrasessantenni, oppure disabili. A tutti gli altri nulla, fossero anche al gradino più basso della povertà, salvo una “indennità di partecipazione” di 350 euro mensili se (e solo se) parteciperanno a un corso di formazione professionale e sempreché un corso venga loro offerto (in questo caso la fantasiosa denominazione è “supporto per la formazione e il lavoro”) e per la sola durata del corso, che può anche essere di pochi mesi. Il tutto con un tetto massimo di 12 mesi, evidentemente sul presupposto che il povero di questa categoria, una volta fatto il corso, se la deve comunque cavare. Salvo fare un figlio e passare così nell’altra categoria.

  1. Le incoerenze del modello

L’irrazionalità di una simile divisione tra ammessi e non ammessi all’assegno di inclusione lascia sbigottiti: la mamma sola e disoccupata con figlio diciassettenne sì, la mamma sola e disoccupata con figlio diciannovenne no; la coppia di poveri sessantenni sì; la coppia di poveri cinquantottenni, no; l’homeless sessantenne sì; l’homeless cinquantenne no; la coppia di giovani disoccupati no, anche se ridotti alla fame, la coppia di giovani disoccupati con un figlio sì. E  si potrebbe continuare all’infinito verificando che, a parità di condizione di bisogno, si può cadere nel gruppo dei sommersi o in quello dei salvati senza che ciò abbia nulla a che vedere con la condizione di “occupabilità” o “non occupabilità”; tanto è vero che poi la norma si occupa di precisare che, anche nel gruppo dei fortunati, i componenti di età tra i 18 e i 59 anni devono transitare per i centri per l’impiego e rispondere alle offerte di lavoro e sono dunque astrattamente “occupabili”: dunque che senso ha la divisione ?

Ovviamente nessuno dubita che la condizione di genitore o di familiare di disabili sia rilevante al fine di modulare il sussidio, ma ciò non ha nulla a che vedere con la retorica della occupabilità, essendo evidente che un provvedimento di contrasto alla povertà deve contrastare la povertà in quanto tale e non la povertà di una determinata condizione familiare, escludendo del tutto la povertà degli altri.

Resosi conto di aver imboccato la strada dell’assurdo, il legislatore ha poi provato a metterci una pezza in sede di conversione in legge, aggiungendo all’elenco dei “salvati” i nuclei familiari con “componenti in condizione di svantaggio e inseriti in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali certificati dalla pubblica amministrazione”.

Ma la pezza, se da un lato conferma che le categorie precedenti non esaurivano certo le situazioni di bisogno, è quasi peggio del buco: sovraccaricherà infatti di lavoro i servizi sociali comunali (la attestazione di presa in carico diventerà infatti il viatico per accedere all’assegno) creando ulteriori differenze tra possibili beneficiari a seconda della efficienza e tempestività dei servizi stessi. E, ancora una volta, appare del tutto estranea alla tesi propagandata, essendo evidente che i servizi sociali, se funzionano, hanno l’obbligo di prendere in carico la persona bisognosa e priva di reddito anche se teoricamente in grado di trovare una occupazione.

  1. Italiani e stranieri

Altre vere e proprie follie non mancano,  ma l’elenco sarebbe addirittura noioso: basti citare la decadenza dall’assegno se un componente del nucleo non accetta una  offerta di lavoro a tempo indeterminato (anche part time al 60%) in qualsiasi parte d’Italia: dal che si apprende che il nucleo in povertà assoluta di Palermo perde la condizione di “povero meritevole” ed esce dall’area dell’aiuto pubblico, se il padre non accetta un’offerta di  lavoro part-time a 700 euro al mese a Milano, dove con quella somma non si pagherebbe neanche un posto letto.

Irrisolta poi la questione degli stranieri: avevano avuto una percentuale di accesso al Rdc molto bassa (mai  oltre il 6%) a causa di due requisiti di accesso: la pregressa residenza in Italia per 10 anni (requisito che vale anche per gli italiani, ma che grava soprattutto sugli stranieri) e il permesso di soggiorno di lungo periodo, cioè a tempo indeterminato.

Sul primo punto il governo, messo alle strette da una procedura di infrazione avviata dalla Commissione Europea, ha ridotto il requisito a 5 anni, con una riduzione del tutto insufficiente rispetto alle obiezioni che erano state sollevate.

Sul secondo punto nulla è cambiato. Il che crea una situazione nuovamente paradossale non potendosi comprendere perché mai lo Stato non dovrebbe “supportare la formazione e il lavoro” dello straniero che si trova qui con un permesso per famiglia o lavoro, anche se si tratta di un ordinario permesso biennale. Anche perché l’Europa la pensa in modo del tutto opposto e, con la direttiva 2011/98, ha saggiamente previsto che i titolari di un permesso per famiglia o per  lavoro abbiano diritto alla piena parità di trattamento con il cittadino dello Stato membro nell’accesso alla formazione professionale; ciò  sulla base della banale considerazione che se  lo Stato ti ha consentito di entrare per ragioni di lavoro (o comunque con la possibilità di lavorare) è poi nel suo stesso interesse garantirti  lo stesso aiuto alla ricerca del lavoro che offre ai suoi cittadini: altrimenti non aveva senso consentire l’ingresso in Italia. Ma la logica, come si è sin qui detto, non è la protagonista di questa fase legislativa.

  1. La Carta acquisti e le sue restrizioni

Eppure, i riferimenti sovranazionali per fare qualcosa di diverso non sarebbero mancati. Basti pensare che il Consiglio europeo, il 30 gennaio scorso, ha votato (con l’adesione dell’Italia) una raccomandazione agli Stati membri in tema di reddito minimo basata su principi del tutto condivisibili: garanzia a tutti coloro che vivono sotto la soglia di povertà,   compresi i “giovani adulti”; continuità della prestazione “fintanto che le persone non dispongano di risorse sufficienti”; semplificazione delle procedure; adozione di misure per combattere la stigmatizzazione e i pregiudizi legati alla povertà.

Esattamente tutto l’opposto di quanto fa il DL 48/2023.

Probabilmente alla radice del disastro, oltre all’abbandono della razionalità in favore della propaganda, sta proprio una sorta di stigmatizzazione della povertà, o quantomeno una sua concezione distorta. I segnali in questo senso sarebbero molti, ma uno può essere illuminante. Si tratta di una norma di dettaglio, che si trova questa volta nella nuova carta acquisti “dedicata a te”: i 382 euro una tantum riconosciuti a chi ha un ISEE sotto i 15.000 euro e ampiamente reclamizzata dalla premier Meloni nei suoi video-messaggi.

Ebbene, la carta “dedicata a te” non viene riconosciuta ai percettori di qualsiasi aiuto pubblico, compresa la NASPI (l’indennità di disoccupazione). Siccome può ben accadere che un ex lavoratore part-time di una cooperativa di pulizie percepisca una NASPI di importo irrisorio e resti ampiamente sotto i 15.000 euro di ISEE, la domanda che sorge è la seguente: perché mai costui, essendo povero al pari di un altro, non dovrebbe ricevere la mitica carta? Semplice. Perché il soccorso pubblico contro la povertà non è un obbligo dello Stato, ma un dono benevolmente elargito dal monarca; e chi ha avuto un dono giustamente non può pretenderne un altro; e il diritto a una vita dignitosa non è un diritto, ma una scommessa: te la puoi giocare una volta sola, esattamente come capita con il “supporto per la formazione”. Se non ce la fai al primo e unico giro, peccato.

(Foto di Benjamin Disinger su Unsplash)

 

 

  • Alberto Guariso

    Avvocato, in precedenza ha lavorato come funzionario sindacale presso la CISL di Milano.