È senz’altro un bel merito, da ascrivere ad Adolfo Scotto di Luzio, storico della pedagogia dell’Università di Bergamo, l’aver lavorato a una minuziosa ricostruzione dell’itinerario umano, politico e culturale di don Lorenzo Milani, nella ricorrenza del centenario dalla nascita. Nel 1982, introducendo un’antologia di scritti di don Milani[1], Ernesto Balducci, sacerdote e scrittore, molto legato all’esperienza di Barbiana, si chiedeva se “ha ancora un senso riproporre all’attenzione pubblica Lorenzo Milani?”. Balducci rispondeva affermativamente: don Milani pur essendo un «maestro di ieri» (e lo scriveva nel 1982!), era però capace però di «aggiungere olio alla lampada di cui abbiamo bisogno oggi».

Può darsi che il medesimo quesito se lo sia posto anche Scotto di Luzio prima di dare alle stampe il suo libro, per i tipi di Einaudi[2]. Anche in questo caso, evidentemente, la risposta è stata positiva. L’autore voleva sgombrare il campo da un “equivoco”, per dirla con il titolo del volume, che, a suo dire, avvolge la figura del priore di Barbiana.

La vicenda terrena di don Milani, è nota. Famiglia fiorentina colta e benestante, ordinazione sacerdotale nel 1947, allontanamento dalla sua parrocchia di Calenzano nel 1954, dopo la pubblicazione del volume Esperienze Pastorali, ritirato dal commercio soli sei mesi dopo l’uscita, per ordine del Sant’Uffizio. La sperduta Barbiana, frazione di Vicchio del Mugello, diviene l’angolo di visuale da cui, nei successivi nove anni che lo separano dalla morte, don Milani predica, insegna, scrive, affascina e divide. Ha ragione Ernesto Galli della Loggia, affermando senza timore di smentite che: «Barbiana più che una Sant’Elena sarà il suo Sinai da cui predicherà all’Italia»[3].

Ma veniamo al libro, e all’equivoco di cui argomenta Scotto di Luzio. La tesi è che dopo la morte, la figura del priore di Barbiana sia stata oggetto di una «provvista di narrazioni mitiche». Scotto di Luzio collega tali narrazioni a due eventi in particolare: la cultura sessantottina e la conseguente crisi ideologica e intellettuale del partito comunista alla fine degli anni settanta. Sgombra subito il campo dagli equivoci: a lui interessa don Milani in quanto “prete” ed “autore” di Lettera a una Professoressa, e non in quanto “simbolo”, continuamente ricontestualizzato vuoi da una corrente, vuoi da un’altra (sempre nel campo del centro-sinistra, s’intende).

La domanda che ci pone don Milani, emerge dalle prime pagine del volume: «perché a pagare sono sempre i più poveri? Perché falliscono sul terreno dell’istruzione?». Domande cui si lega l’assillo che, per l’autore, guida la storia della scolarizzazione moderna: «cosa fare con coloro che non ce la fanno?».

Fissato il campo da gioco, l’autore si addentra nella spiegazione dell’equivoco che, in estrema sintesi si potrebbe così riassumere. Don Milani è divenuto paladino del modello di “scuola democratica”, strumento di emancipazione delle masse, quando, al contrario, dalla sua cattedra di Barbiana, si scagliava, non senza animosità, contro la scuola dello Stato, a suo dire promotrice di una selezione ingiusta e inefficace: i poveri respinti verso i campi e le fabbriche, i ricchi (i “pierini”, come li apostrofa don Milani) promossi sulla base di una istruzione nozionistica che li lascia, sempre per don Milani, «privi della conoscenza delle cose».

In altri termini, lungi dal sostenere che la scuola fosse strumento di mobilità sociale, per l’autore, don Milani non si faceva illusioni: difficile, quasi impossibile, per un figlio del contadino arrivare ai risultati del figlio del dottore. Ma non perché don Milani non credeva nel riscatto sociale. Ma perché – qui sta il problema che denunciò con lungimiranza – tutto il sistema scolastico era (è ancora oggi?) costruito sul modello “borghese”, focalizzato su contenuti “colti” privi di utilità pratica per le classi più povere, che, di conseguenza, dalla scuola non ottengono utilità e (oltre il danno, la beffa!) ne sono umiliati, con odiose bocciature.

Ma se la scuola è classista e nega la realtà che contempla tante culture, e non una soltanto, allora dove sta il suo merito? Scotto di Luzio è persuaso che nella narrazione di don Milani «qualsiasi conoscenza che esorbitasse dall’esperienza quotidiana dello studente, secondo la pedagogia di Barbiana era intollerabile. Valeva per la lingua come per la matematica». Sulla lingua, peraltro, il libro contiene due capitoli assai interessanti, che partono proprio dal famoso estratto di Lettera a una professoressa: «Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro». Ma anche rispetto a ciò, forse, occorrerebbe uscire da un altro equivoco, vale a dire che la lezione di don Milani abbia dato linfa a un modello di scuola non sufficientemente improntato al merito e alla valutazione, incapace di essere selettiva e culturalmente “forte”, ispirando, subito dopo la sua morte, le richieste sessantottine di una nuova scuola, senza valutazioni.

Sarebbe insomma ingeneroso classificare don Milani come avversatore del merito, ammesso che la sua esaltazione nei termini indicati, da ultimo, dal nuovo corso governativo, sia un aspetto positivo, il che è tutto da dimostrare. Don Milani non avrebbe probabilmente aperto la scuola di Barbiana, non avrebbe sottratto ore di lavoro nei campi ai suoi ragazzi per insegnargli a leggere e scrivere, non li avrebbe condotti in visita alle fabbriche di Milano per conoscere un “nuovo mondo” (l’amicizia con la famiglia Pirelli, gli consentì di presentare i suoi parrocchiani-contadini alle famiglie dall’alta borghesia milanese[4]) se avesse pensato che nessuno può riscattarsi e che le classi sociali sono rigide e immutabili. Allo stesso tempo, non poteva tollerare una conoscenza trasmessa esclusivamente dall’alto, senza un fine, uno sbocco applicativo nella vita reale, oltre che senza la consapevolezza delle diverse situazioni di partenza. Il merito, potremmo azzardarci a dire, per don Milani era valorizzare quanto ciascuno è in grado di dare, con tutto il suo impegno e la sua forza di volontà, senza suddividere il mondo in salvati e dannati, negando qualunque prospettiva a chi sta dietro.

Qui, forse, sta il punto di rottura più significativo dell’esperienza della scuola di Barbiana. Non può essere un rigido sistema gerarchico fondato sul nozionismo sterile a decidere chi sta davanti e chi sta dietro. La conoscenza, in altri termini, non è solo quella che si trasmette, ma quella che ciascuno di noi autoproduce, nel percorso che lo conduce alla sua emancipazione dalla situazione di partenza. Insomma, vale per la prassi educativa di don Milani l’assioma di Paulo Freire: «nessuno educa nessuno, gli uomini si educano insieme».

 

[1] Gianfranco Riccioni (a cura di), Lorenzo Milani, Scritti, Luciano Manzuoli Editore, 1982

[2] Adolfo Scotto di Luzio, L’equivoco don Milani, Einaudi, 2023.

[3] Ernesto Galli della Loggia, Don Milani capovolto, Corriere della sera, 1 giugno 2023

[4] Sul punto, vale la pena leggere le pagine contenute in P. Ichino, La casa nella pineta, Giunti, 2018.

 

  • Martino Liva

    Avvocato, consigliere dell’associazione di Città dell’uomo e coordinatore del Comitato dei sostenitori della Fondazione Ambrosianeum.