La mano destra stringe una spada, la sinistra il pastorale, le maglie della tunica di cui è rivestito rivelano i volti dei sudditi, la figura si erge su colline, campi e città del suo paese. È l’immagine del patriarca, dell’uomo dal potere assoluto, del dittatore benevolo, protettore del suo popolo, disegno di copertina della prima edizione del “Leviatano”, il capolavoro di Thomas Hobbes, apparso nel 1651. Cambia il pastorale con il Corano e ne esce la perfetta immagine di Recep Tayyip Erdogan. Il presidente turco appena rieletto da una maggioranza (esigua ma sufficiente, anche con l’aiuto di qualche aggiustamento) di turchi in cerca del governante supremo, del sovrano non dinastico al quale, tramite un contratto sociale foriero di sicurezze, affidare i propri destini. Similmente all’autocrate immaginato da Hobbes – detentore del potere politico e di quello religioso – Erdogan, mentre fa politica a propria discrezione, fa anche dell’Islam sunnita la leva dei propri consensi, ponendosi – come era il caso dei sovrani Ottomani – quale capo della religione.

Dove, date queste premesse, porterà la Turchia? Quali gli sviluppi interni? Come posizionerà il suo Paese, membro della Nato, su uno scacchiere internazionale sempre più rovente? Queste domande hanno un denominatore comune: forte della rielezione, e dei poteri esorbitanti di cui dispone, accentuerà e accentrerà le politiche in atto, iniziando dalla laicità dello Stato. “Il secolo della Turchia”, è lo slogan sbandierato da vari mesi, in attesa di celebrare il centenario della Repubblica di Ataturk. Un nazionalista, certo, ma di quei tempi altro non poteva essere, perché si trattava di ricostruire una nazione sulle rovine dell’Impero ottomano. Voleva, Ataturk, una Turchia laica, aperta all’occidente. Ammirava la cultura francese; guardava anche all’Italia e ne adottò il codice penale. Di lui Erdogan manterrà il nazionalista, ossia l’elemento coevo, dunque transitorio, ma terminerà di cancellarne il lascito secolare, modernizzatore e filoccidentale. Crescerà ancor più l’Islam politico, con l’appartenenza a questa o quella setta del sunnismo come elemento di accesso all’impiego pubblico, alle università, a tant’altro. La magistratura sarà ancor più al suo servizio, per controllare i dissidenti (siano singole persone o media e think tank). Sono circa 200 mila i casi di “insulto al presidente” pendenti di fronte al potere giudiziario. Nessuno ha mai osato chiedergli come mai tanti suoi concittadini lo insultino. La realtà è altra: una pur velata critica suona come oltraggio. Uno sgarro al potere. Se ciò è stridente con i parametri di una democrazia liberale, non lo è più nell’ottica del contratto sociale di tipo hobbesiano tra lui e il suo popolo. “Temi Erdogan e rispettane il potere”, ne è l’essenza. Suona quasi come versione secolare del “Temi Allah…”, tanto presente nel Corano.

In campagna elettorale, in un’intervista a un gruppo di giornalisti (ovviamente di regime), ha avanzato l’ipotesi di una riforma costituzionale per abbassare il quorum per l’elezione del presidente al di sotto del 50 per cento più 1. Modifica rivelatrice dell’intenzione di potersi di nuovo candidare nel 2028. Cosa per la quale avrà bisogno di eliminare il vincolo dei due mandati attualmente previsto dalla Costituzione. Insomma, lavora per garantirsi la continuità del potere, lo vuole assoluto senza neppure la maggioranza assoluta, ma più semplicemente e facilmente con quella relativa.

Veniamo alla politica estera. Putin si è affrettato a congratularsi. Sono rimasti pochi i leader ai quali può rivolgere la parola. Erdogan ha questo ‘privilegio’. Ma si tratta di un qualcosa di piuttosto caro. Nei quindici mesi della guerra russa in Ucraina, l’Occidente ha reciso la dipendenza energetica dalla Russia, la Turchia l’ha rafforzata, in termini di gas ed energia atomica. Quanto sia il debito turco verso la Russia, non è dato di sapere, ma la fattura di Putin non tarderà ad arrivare. Certo, Erdogan si è molto speso per l’accordo sul grano, tornerà a farlo nelle prossime settimane, si proporrà come il grande mediatore. Il legame con Putin passa anche dalla Siria. Ma il contrasto di interessi si sta attenuando. La riabilitazione di Bashar Assad è in atto. I contatti diplomatici stanno riprendendo, l’invito per il presidente siriano ad Ankara non dovrebbe tardare. In questo quadro di crescente allineamento e dipendenza dalla Russia, due opposti sviluppi si stanno delineando. Una maggior proiezione verso la Cina e crescenti dissapori con la Nato e i suoi singoli paesi membri, con la possibile eccezione dell’Ungheria di Orban… Ha bisogno, il Sultano, della potenza economica cinese, nella forma di investimenti e sbocchi per le sue esportazioni, ma anche di possibili sostegni finanziari per la sua indebolita economia, per la lira svalutata, ma ancora sopravvalutata. In ambito Nato Erdogan continuerà a comportarsi da Gian Burrasca, facendo pesare in modo spregiudicato il diritto di veto, per l’accesso della Svezia. Né riguardo all’Ue vi sono da aspettarsi sviluppi positivi, accantonato ogni discorso di adesione, anche la prospettiva di una più ampia unione doganale resta incerta.

In definitiva nel futuro della Turchia si profila l’alleanza del mondo degli ultimi. L’ultimo Sultano, l’ultimo Zar, l’ultimo Imperatore.

[Versione ampliata dell’articolo apparso sul Giornale di Brescia il 31 maggio 2023]

(Foto di Meg Jerrard su Unsplash)

 

 

  • Angelo Santagostino

    Già docente alla Cattedra Jean Monnet in Economia dell’integrazione economica europea. Università degli studi di Brescia (1997-2012). Ankara Yildirim Beyazit University, (2013-2021).