“Chi possiede tutti i mezzi stabilisce tutti i fini”. Frase divenuta iconica di Friedrich von Hayek. L’economista austriaco (di nascita e di scuola), si riferiva alle economie statizzate dei paesi comunisti. Tuttavia, questo lemma si attaglia bene alle democrazie illiberali. È una buona chiave di lettura della Turchia odierna dove, appunto, Erdogan possiede tutti i mezzi, dunque stabilisce tutti i fini. Primo tra tutti imprimere una radicale trasformazione alla Repubblica di Ataturk, il Padre dalla patria, il modernizzatore della Turchia con lo sguardo rivolto all’Occidente, l’uomo al cui mausoleo milioni di turchi affluiscono e si assiepano ogni anno. Il centenario della fondazione potrebbe essere quello dell’ultimo colpo al suo lascito. Al suo posto si profila una repubblica di stampo islamico, neo-ottomana nelle sue mire di forte influenza sui territori (Balcani, Medio Oriente, nord-Africa) del fu impero, fondamentalmente antioccidentale.

Così sembra volere la maggioranza, assordata e manipolata sì da chi detiene i mezzi di comunicazione e molti altri ancora, ma limitata, degli elettori del 14 maggio. Il presidente Recep Erdogan va al ballottaggio con oltre due milioni di voti di vantaggio sull’avversario Kemal Kiliçdaroglu. Inoltre, ha di fatto ricevuto, o meglio si è procurato, l’endorsement del terzo contendente, l’ultranazionalista Sinan Ogan, ricevuto, in vista del secondo turno, a Palazzo Dolmabaçe, l’ultima residenza dei sultani, il luogo dove è morto Ataturk, divenuta il suo ufficio di Istanbul. “Non vi è nulla su cui non siano d’accordo” è stato il commento di un funzionario dell’Akp. Resta da vedere come si esprimerà il 5 per cento di votanti di Ogan, assurto al ruolo di “King maker”, ma la cui campagna è stata di stampo kemalista. Nel tentativo di recuperare voti Kiliçdaroglu ha spostato a destra la politica migratoria, il tutto a spese dei rifugiati siriani.

I media, ‘spontaneamente’ allineati col potere forte del Sultano, già ne cantano il trionfo il 28 maggio.

L’opposizione, pur senza sostegno mediatico, anzi nell’ostilità dei mezzi controllati, ne ha, comunque, insidiato il potere. Ossia, nonostante l’inesistenza di un confronto diretto tra parti politiche opposte, tra tesi e ragioni del governo e quelle dell’opposizione; nonostante una campagna elettorale nella quale il ritratto del presidente campeggiava ovunque, sconfinando nel culto della personalità; nonostante la televisione di stato (prevista dalla Costituzione) avesse dedicato una cinquantina di ore al candidato Erdogan e soli trentadue minuti al candidato Kiliçdaroglu. Nonostante tanti altri nonostante, per via dei quali tutto ha giocato a favore del presidente uscente, la Turchia rimane un paese politicamente e culturalmente diviso, dove una metà non ci sta, non vuole starci, fa resistenza andando massicciamente al voto, all’autocrazia da lui edificata mattone dopo mattone. Eppure, in questo 2023 vi erano le condizioni perché il tetto di cristallo potesse essere infranto: la crisi economica (inflazione e svalutazione della lira) e la mala gestione del terremoto, nella loro gravità avrebbero potuto essere sufficienti a determinare un voltafaccia degli elettori. Perché non è avvenuto?

Per capirlo si può cominciare dalla distribuzione geografica dei voti pro-Erdogan e pro-Akp. È l’Anatolia centro orientale, con l’eccezione delle province a ridosso dell’Iran, ostinatamente kemaliste ma poco popolate, la fonte dei loro consensi elettorali. L’Anatolia, da un punto di vista religioso, attaccata ai precetti dell’Islam più conservatore; nonché, da un punto di vista sociale, strenua difenditrice, anche da parte di tante donne, della struttura patriarcale. Erdogan è visto, per l’aspetto religioso, come il nuovo Califfo (capo dell’Islam sunnita), e per l’aspetto sociale, come il patriarca dei patriarchi. Così, la distribuzione di denaro contante ai terremotati, o addirittura a bambini – avvenuta il giorno delle elezioni di fronte al seggio elettorale – ne ha solo esaltato la figura come il grande padre, a cui nulla sfugge e a tutto provvede. Ma è solo una piccola parte della strategia politica di Erdogan. Il grosso è fatto di una capillare assistenza a suon di sussidi (gas ed elettricità tra gli ultimi), regali, aumenti di stipendi deliberati a pochi giorni dalle elezioni (come solo in un sistema da vero “uomo solo al comando” può avvenire), il tutto in cambio della fedeltà più assolta. Va aggiunto il clientelismo con tante imprese, alle quali sono elargiti prestiti a tassi d’interesse inferiori all’inflazione, così la seconda paga i primi, assicurando al Presidente i voti di manager e maestranze, dell’insieme degli stakeholder. Da noi viene definito voto di scambio. Quanto in una democrazia liberale è sanzionato, in una illiberale è premiato. L’aggettivo marca una differenza fondamentale.

Non si è fatto, Erdogan, mettere nell’angolo dalla crisi economica, l’ha nascosta toccando abilmente le corde dell’orgoglio nazional-militare del suo popolo: la nuova portaerei, i nuovi caccia e carrarmato – tutte cose a suo dire fatte in casa, ma con tante componenti estere – hanno riempito i suoi discorsi.

Insomma, un mix ben presentato – tramite il controllo dell’informazione – di islamismo, tradizionalismo e nazionalismo.

Il tetto di cristallo continua a reggere. L’archiviazione di Ataturk è prossima.

[Versione ampliata dell’articolo apparso sul Giornale di Brescia il 21 maggio 2023]

(Foto di Svetlana Gumerova su Unsplash)

 

  • Già docente alla Cattedra Jean Monnet in Economia dell’integrazione economica europea. Università degli studi di Brescia (1997-2012). Ankara Yildirim Beyazit University, (2013-2021).