Il dibattito sull’automazione spinta, e sull’impatto di essa in termini occupazionali, è una questione seria e da affrontare con molta consapevolezza. In estrema sintesi, si possono segnalare: 

  • le posizioni tecno-ottimiste, per le quali il progresso tecnologico è non solo un dato di fatto, ma anche un’evoluzione da favorire, e per le quali il “sacrificio” di manodopera viene compensato (o più che compensato, secondo alcuni) da un aumento di nuovi posti di lavoro con contenuto più avanzato, o dalla creazione di nuove professioni;
  • le posizioni critiche, che ricordano come la variazione fra posti “sostituiti” dalle macchine o dagli algoritmi e quelli creati con l’avanzamento tecnologico sarà sempre negativo, con risposte che vanno dalla “decrescita felice” (ingenua e dannosa già sul medio periodo, ad avviso di chi scrive) a forme di critica riformista, che insiste sulla necessità di governare la transizione (con più formazione e più ammortizzatori sociali), ma anche di “limitare” in alcuni ambiti l’automazione spinta;
  • la visione di chi crede in una produttività “augmented” che rafforza gli stessi operai e tecnici, supportati da esoscheletri, visori di realtà virtuale, Ipad che muovono avvitatori e altre macchine, per non dire del supporto che l’Intelligenza Artificiale può dare a tecnici e manager, in una dinamica complessiva che dovrebbe dare più produttività e salvare, a certe condizioni, anche tutta (o quasi tutta) la base occupazionale.  

Su questo tema ampio e complesso vi sono studi ormai classici (quantomeno dal 2013) e altri che continuamente vengono proposti, ma non è di ciò che si vuole parlare in questa breve riflessione. Vorrei parlare delle cosiddette smart factory, e in particolare di una Lean smart factory che, come in vari altri casi, ho avuto occasione di visitare alcuni giorni fa: da questo caso si risalirà anche al tema dell’occupazione dei lavoratori, in un’ottica fattuale, senza pregiudizi.

Non farò il nome per riservatezza, ma si può dire che è una multinazionale tedesca leader mondiale in una serie di applicativi per l’automazione e, nello specifico dell’impianto visitato, soprattutto nei motori elettrici per nastri trasportatori in vari ambiti, dagli aeroporti ai classici stabilimenti industriali, dal settore alimentare alla logistica, ad altri settori. Una realtà di 4,2 miliardi di fatturato e oltre 20.000 dipendenti, di cui circa 200 in Italia, per produzioni di eccellenza, coi principali centri vicino a Milano e a Bologna. Vorrei indicare alcuni punti che spieghino cosa vuol dire mettere assieme una dotazione smart (sensori e algoritmi che consentono elevata automazione e predizione dei flussi produttivi) e un paradigma Lean: questo è spesso indicato come “modello Toyota”, che James Womack e Daniel Jones definirono Lean Thinking o Lean Production in un celebre volume del ’96; di ciò non abbiamo il tempo di parlare, anche perché quel modello si è fortemente evoluto, ma ci limiteremo ad una serie di spunti. Nello stabilimento vicino a Milano, che ho potuto visitare grazie ai colleghi di Studio Base che analizzano a fondo questi processi, ho trovato:

  1. navette AGV, cioè a guida autonoma, che accompagnano l’operaio con un tablet che dà le istruzioni e che portano a lui buona parte dei componenti che deve montare; 
  2. un sistema pick and light, ovvero un sistema di luci o doppie luci, di due colori, che indicano all’operaio da quale vaschetta prelevare i rimanenti pezzi da montare;
  3. aree in cui i robot svolgono alcune funzioni, ad esempio il riempimento di olio nel piccolo serbatoio di uno dei pezzi: ciò avviene senza una goccia in più di olio e senza sversamenti che accadrebbero con un’azione umana, ma questo obiettivo Zero Sprechi va associato a quanto dicevamo nei due punti precedenti, che porta, sempre per dirla con un linguaggio Toyota/Lean, a Zero Difetti e dunque Zero materiali o pezzi da buttare (quelli costruiti con piccoli difetti, nel caso di prodotti simili, sono inutilizzabili);
  4. non c’è un tecnico di livello superiore, preposto a dare ordini, che potrebbe egli stesso sbagliare: tutto è pianificato e, se nasce un problema su un prodotto, questo viene accantonato ed esaminato dai tecnici, senza fermare il “flusso” (tipico termine Lean);
  5. si lavora in modo più silenzioso e meno stressante, assieme ai robot ma con sensori di questi che fermano la macchina quando riconoscono il calore di un organismo umano, cui sono stati “educati” (anche le navette si fermano quando “comprendono” coi sensori di essere vicini a un umano): ciò ha portato a pochissimi infortuni (una decina in un anno), meno di quanto sarebbe successo con operai impegnati a fare certe operazioni, o a scambiarsi pezzi manualmente, o a dare martellate o a tagliare alluminio con altri compagni nei pressi. Ma soprattutto, quella decina di infortuni sono tutti lievi, proprio per il controllo operato sulle macchine e grazie alle macchine;
  6. il lead time, che in questo caso vuol dire il tempo dalla e-mail con l’ordine di un cliente alla spedizione, grazie al sistema Lean e all’automazione si è ridotto da 20 a 3 giorni: un elemento decisivo per la competitività di un prodotto, oltre alla sua qualità, e che consente di tenere un prezzo che dia una significativa marginalità;
  7. quando si è dovuto resettare un magazzino, ci sono voluti un paio di giorni contro i 7-8 che avevano previsto i tedeschi;
  8. si produce in ottica di “personalizzazione di massa” del prodotto (“mass customization”), che unisce il dettaglio richiesto dal singolo cliente con costi di produzione su larga scala, ottenendo dunque le “economie di scala” che sembravano impossibili con produzioni sartoriali sulle esigenze del cliente (questo è un altro vantaggio competitivo enorme rispetto ai concorrenti);
  9. per evitare quanto accaduto con la pandemia alla catena della fornitura (supply chain), i manager hanno pianificato e fatto arrivare nei magazzini i componenti necessari per costruire o montare i prodotti su un arco temporale da oggi a un anno (se accadesse qualcosa a Taiwan, la produzione dovrebbe avere un piano B delle forniture);
  10. una vera economia circolare: in un prodotto a fine vita (restituito, in questo caso, dopo circa 20 anni) vengono tolti i freni e mandati in Germania per un riciclo a sé, e poi una pressa “intelligente” separa acciaio, ferro, alluminio e rame, mentre si sta pensando a come riutilizzare il bronzo che c’è nel prodotto. Questo riciclo è nato da una visione modulare del prodotto, e ora si fa un’economia circolare già ex ante (progettando il prodotto in modo che una parte rilevante di esso sia riutilizzabile), e non solo ex post (vedendo, a fine vita, che cosa si può riciclare);
  11. le navette si ricaricano senza bisogno di batteria, ma stando in piccole aree in cui un filo sotterraneo crea un campo magnetico con un componente nella “pancia” della navetta, così da creare una “condensazione” che produce energia senza la necessità di batterie, che andrebbero prima prodotte e poi smaltite: un altro intervento ambientalmente rilevante;
  12. per riconvertire il vecchio impianto industriale in questa “lean smart factory”, nessun dipendente è stato licenziato, anzi ce ne sono tre in più, e tutti sono più formati e soddisfatti, perché sono cresciuti con la tecnologia (all’inizio erano timorosi del licenziamento). Inoltre, col tabellone che dice in tempo reale quanti pezzi si stiano producendo e quanti ne manchino all’obiettivo giornaliero, non solo vi è la spinta a raggiungere tutti insieme l’obiettivo cui è legato il premio di produzione (un operaio “scarico” per qualche minuto va ad aiutare il compagno), ma, se per caso l’obiettivo non è stato conseguito entro l’ora di fine turno, gli operai restano spontaneamente per completare la commessa giornaliera (con straordinari e sistemi di trasparenza, ovviamente).

Infine, le due cose più difficili, per ammissione degli stessi manager:

  • riuscire a mantenere il “flusso tirato” della produzione (non grandi stock in serie ma un pezzo alla volta senza fermarsi mai, come dice il Lean Thinking): lavorare con un flusso così armonico e ininterrotto non è facile;
  • avvicinare la percezione del tempo che hanno i manager e tecnici dell’IT (Information Technology) e quelli dell’OT (Operations Technology), perché una valutazione di tempi fatta da un uomo del digitale puro è diversa da quella di un tecnico sulle linee vere di produzione, che sa quanti imprevisti possano verificarsi, nonostante la pianificazione molto rigorosa fatta col digitale.

Le conclusioni da trarre dal caso di questa azienda (ce ne sono alcune centinaia in Italia, e in Germania anche di più) sarebbero tante, ma ci limitiamo a una: l’automazione può essere, e spesso è, un fattore di riduzione della base occupazionale, ma essa, qualora venga “governata” con politiche di formazione dei lavoratori, va a salvare proprio l’occupazione, perché consente di mantenere quella competitività, nella lotta feroce con cinesi e altri, senza la quale non vi sarebbero prodotti con qualità e prezzi competitivi. Non si deve chiudere in modo aprioristico alla tecnologia, che divora posti di lavoro (cosa che spesso accade) quando manager e imprese la utilizzano in un’ottica “conservatrice”, cioè solo per fare riduzione di costi. Se invece si pensa a un utilizzo “progressivo” degli strumenti tecnologici, cioè per innovare processi e prodotti, e si investe in formazione sulle persone, si rimane in testa alla classifica delle aziende di livello mondiale, e in Europa si continuerà ad avere reddito, benessere, e rispetto dei diritti dei lavoratori.

Naturalmente, non tutte le imprese hanno queste condizioni, ma la strada ormai è propria di varie centinaia di aziende nel nostro Paese, ed è diventata la regola per alcuni distretti (si pensi a quello emiliano della meccatronica, o a quello bolognese del packaging di eccellenza). Si consideri peraltro che gran parte di queste aziende, e in primis quella di cui ho parlato, non intendono andare in borsa, preferendo una base di finanziamento graduale e investitori attratti dalla qualità dei prodotti, e che impegnano risorse rilevanti in formazione, brevetti e R&D (Ricerca e Sviluppo). Una strada non facile per tutti, certo, ma è una strada possibile.

 

Crediti foto: Jan Kopřiva su Unsplash

 

 

  • Federico Mioni

    Direttore di Federmanager Academy e docente presso i master di IULM e Università Cattolica