Le dichiarazioni “demografiche” degli esponenti del Governo, nei giorni 17-20 aprile 2023, si sono susseguite a ritmo frenetico. Giorgia Meloni, intervenendo all’inaugurazione del Salone del Mobile, dopo aver sottolineato che quattro imprese su dieci faticano a trovare personale qualificato, ha affermato che la priorità è alzare il tasso di occupazione femminile. Intervenendo al congresso della Cisal, il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, di Fratelli d’Italia, con termini a dir poco infelici, ha detto «Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli e li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada». Infine, il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti e il sottosegretario leghista al Ministero delle imprese Massimo Bitonci hanno affermato che il Governo vuole detassare i genitori. Per il dettaglio vedi: https://www.huffingtonpost.it/politica/2023/04/20/news/maxi_bonus_figli_lega-11875946/
Questa iniziativa politico-verbale ha anche multiformi obiettivi di propaganda politica: distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla fallimentare gestione degli sbarchi, nel primo trimestre dell’anno triplicati rispetto al 2022, ai tempi di Mario Draghi; rispondere in qualche modo agli imprenditori che implorano più manodopera, con 240 mila richieste effettive di nuovi ingressi (in realtà regolarizzazioni) a fronte di 80 mila posti disponibili nel decreto-flussi; rispondere alle richieste di aiuto delle associazioni di famiglie numerose, particolarmente colpite dall’inflazione, in particolare dagli aumenti del carrello della spesa.
Tuttavia, non si tratta solo di propaganda, perché la sfida demografica del prossimo ventennio fa tremar le vene e i polsi. Senza migrazioni, nel 2023-42 i nuovi ventenni saranno 10 milioni (mediamente 500 mila l’anno), mentre i nuovi 65enni saranno 18 milioni (mediamente 900 mila l’anno), con un deficit annuo di 400 mila persone in età 20-64. Inoltre, buona parte dei neopensionati saranno operai, o comunque persone al massimo con la licenza media inferiore, mentre gran parte dei giovani che si affacceranno sul mondo del lavoro saranno diplomati o laureati. Il mondo produttivo, il welfare e la società tutta faranno fatica a sopportare un tale salasso della potenziale forza lavoro, e le sue modifiche strutturali. Vale quindi la pena di ragionare sulle politiche opportune e possibili, proprio partendo dalle esternazioni degli attuali esponenti del Governo. Facciamo un po’ di ordine, distinguendo fra migrazioni, occupazione femminile e fecondità.
Nessuna paura del “rimpiazzo”
Giorgia Meloni e Francesco Lollobrigida affermano, in modo più o meno esplicito, che le immigrazioni sono un male necessario, un rimedio di ultima istanza cui ricorrere a malincuore, perché se gli immigrati sono troppi la popolazione autoctona rischia di essere “snaturata”, ossia di perdere la sua identità. La convinzione sottostante è che gli immigrati – generazione dopo generazione – restino impermeabili ai modi di pensare e di vivere del luogo di arrivo. Quando l’atteggiamento degli autoctoni è ostile, può accadere che i migranti si autodifendano, creando comunità chiuse. È anche vero che non tutte le comunità immigrate hanno la stessa velocità di integrazione. Tuttavia, i meccanismi prevalenti sono altri, per due motivi.
Il primo è che migrazione è selezione: le persone che migrano sono diverse da quelle che restano a casa, e la principale fonte di diversità è proprio il desiderio di cambiare il modo di vivere, gli atteggiamenti e gli stili di vita. Non è solo ansia di benessere e di consumo, ma anche desiderio di libertà e di novità.
Il secondo meccanismo, connesso al primo, è che questa selezione agisce come acceleratore di assimilazione, intesa – letteralmente e senza alcuna accezione negativa – come volontà di diventare simili alle persone e alle famiglie del paese ospitante. Una ricerca di qualche anno fa, diretta dal Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università di Padova ha mostrato che non solo i comportamenti, ma anche gli ideali, i sogni e le aspirazioni dei giovani stranieri di 10-13 anni sono molto vicini a quelli dei loro coetanei con genitori italiani. Tale somiglianza cresce rapidamente con gli anni trascorsi in Italia. Quindi le immigrazioni non snatureranno il nostro paese.
Mi trovo a Chicago, dove ho incontrato italo-americani di seconda e terza generazione: sono del tutto indistinguibili dai coetanei americani “doc”, se si eccettua l’orgoglio per le origini italiane e qualche (salutare) residua abitudine culinaria e alimentare. Anzi, molti di loro si sentono più americani degli americani, proprio alla luce dell’immigrazione di successo realizzata dai loro nonni e genitori. Accadrà lo stesso per i figli dei tanti popoli che hanno cercato e stanno cercando in Italia un futuro migliore, specialmente se la politica e la società civile – invece di agitare paure – saranno in grado di disegnare percorsi accelerati di integrazione. Proprio il contrario di quanto sta facendo oggi il Governo, togliendo la protezione speciale, ostinandosi a mantenere la “preistorica” e inapplicabile legge Bossi-Fini. Ci mette del suo anche l’Europa, incapace di trasformare le migrazioni in materia autenticamente comunitaria: viene perpetuato un nonsense contraddittorio, accostando la libertà di movimento fra i paesi UE con e la mancata gestione comunitaria dei movimenti ai confini dell’Unione.
Incentivare l’occupazione femminile
Le donne italiane lavorano poco (per il mercato), specialmente quando hanno figli, se vivono al Sud, e se hanno un titolo di studio basso. Ciò avviene per motivi sia culturali che economici (vedi il libro “Non è un paese per madri”, scritto per Laterza da Alessandra Minello). Un motivo culturale fortissimo è che – a parità di altre condizioni – le donne italiane dedicano alla casa, ai figli e all’assistenza dei loro genitori e suoceri un numero di ore di molto superiore rispetto alle coetanee che vivono nel Nord e Centro Europa. La cultura della casa e dei legami di sangue, in Italia, è più forte che mai, senza alcun segno di indebolimento. Di questa cultura fa parte anche la ritrosia di affidare il bambino piccolo a persone esterne alla famiglia: le donne che affermano che “Un bambino soffre se la madre lavora” sono la maggioranza in Italia, e sono il triplo rispetto all’Olanda.
Inoltre, le donne italiane lavorano poco (per il mercato) perché spesso il lavoro non c’è, specialmente al Sud, perché i servizi di aiuto alle famiglie sono costosi, poco flessibili o – in alcune aree del paese – praticamente inesistenti, e perché spesso il lavoro è pagato così poco da non essere competitivo rispetto al lavoro domestico. Se devo lavorare a tempo pieno per 1.200 euro al mese, e devo spenderne 800 per pagare chi si prenda cura dei miei figli e/o dei miei genitori, mi conviene rinunciare al lavoro retribuito, permettendo magari al mio partner di lavorare e guadagnare di più, o accontentandomi di fare qualche lavoretto ogni tanto. Infine, in molti ambienti di lavoro – purtroppo – si preferisce non assumere o lasciare a casa le lavoratrici madri, considerate poco disponibili a dedicarsi al lavoro con abnegazione e flessibilità.
Malgrado tutti questi ostacoli, la proporzione di donne che lavora è aumentata molto, negli ultimi trent’anni, e presumibilmente aumenterà ancora, grazie alla sempre maggior scolarizzazione femminile, alla sempre maggior disponibilità degli uomini a farsi carico del lavoro domestico e della cura dei figli, e a causa delle crescenti difficoltà – per una famiglia – di condurre una vita dignitosa con un solo reddito.
Anche se la tendenza “spontanea” è al rialzo, c’è comunque spazio per le politiche volte a incrementare la partecipazione permanente delle donne al mondo del lavoro. Per farlo, è necessario rimuovere gli ostacoli succitati: no alle “dimissioni in bianco”; sì a servizi meno costosi e più flessibili, che permettano di conciliare per gli uomini e per le donne il lavoro di cura con il lavoro per il mercato; sì al congedo paritario per entrambi i genitori; sì, infine, a lavori meglio retribuiti. È su questo che il Governo dovrebbe intervenire, per dare concretezza alle parole di Giorgia Meloni. Non è facile, perché non bastano bonus e una tantum, ma andrebbe modificata alla radice la struttura della fiscalità e della previdenza italiana: purtroppo per il Governo, queste modifiche contrastano con le promesse elettorali di anticipare i pensionamenti e con le obiettive necessità di altre cruciali branche della spesa pubblica, a partire dalla sanità.
Infine, l’occupazione per essere appetibile dev’essere stabile, e quindi quelli che vanno incentivati, per l’uomo come per la donna, sono i lavori a tempo indeterminato. Quindi, la condivisibile volontà espressa dalla Presidente del consiglio di incentivare il lavoro delle donne contrasta con altre iniziative del Governo, che sta intervenendo per permettere il protrarsi quasi sine die dei contratti a tempo determinato.
Aiutare le coppie ad avere i figli che desiderano
Se da domani la natalità raddoppiasse, gli effetti sulla disponibilità di lavoratori si vedrebbero solo fra vent’anni. Tuttavia, anche in una prospettiva di sostenibilità demografica, un incremento delle nascite è auspicabile, perché gli squilibri demografici di oggi derivano da una fecondità che, in Italia, è inferiore a 1,5 figli per donna dal 1983: scontiamo oggi le mancate nascite dell’ultimo ventennio del ‘900. L’intervento dello Stato a favore delle famiglie con figli si giustifica inoltre per permettere alle coppie di soddisfare un legittimo desiderio: le indagini mostrano che i giovani/adulti italiani desidererebbero mediamente 2-3 figli, mentre in realtà ne hanno 1-2. Inoltre, una brutta novità dell’ultimo ventennio è la rapida crescita degli italiani senza figli: fra gli attuali 50-60enni, il 27% degli uomini e il 21% delle donne non hanno figli: è un poco invidiabile record mondiale. Solo in pochissimi casi si tratta di una scelta, mentre la grande maggioranza ha cercato troppo tardi di averne, oppure non è riuscita a concretizzare in tempo un progetto di coppia. Infine, poiché – ceteris paribus – al crescere del numero di fratelli diminuiscono le disponibilità economiche, l’intervento dello Stato si giustifica per stabilire fra i bambini pari opportunità, a prescindere del numero di fratelli.
Tutto ciò premesso, quando chiedo ai miei studenti se è giusto che lo Stato faccia pagare meno tasse a chi ha più figli, ricevo entusiastiche approvazioni. Quando chiedo – invece – se chi ha meno figli debba pagare più tasse, gli entusiasmi si smorzano, anche se si tratta della stessa cosa…
Quindi, interventi economici sostanziosi a favore delle famiglie con figli hanno bisogno di una forte spinta e consapevolezza politica. È quanto si è miracolosamente concretizzato nella scorsa legislatura, quando all’unanimità il Parlamento ha approvato la legge Delrio-Lepri, proposta del Partito Democratico, sull’assegno unico e universale (AUU). AUU ha riassunto in un’unica misura, la giungla di detrazioni, assegni e bonus vari a favore delle famiglie con figli under 21, aggiungendo una sostanziosa dote annuale di sei miliardi di euro, divenuti quasi sette nel 2023 per l’adeguamento all’inflazione. Senza entrare nei dettagli (vedi https://www.neodemos.info/2021/09/10/lassegno-unico-e-universale-per-i-figli-un-e-book-sulla-novita-italiana-e-il-contesto-europeo/), diciamo solo che il maggior pregio dell’AUU è di dipendere esclusivamente dalla presenza del figlio, e non – come accadeva prima – dalla condizione del genitore (lavoratore o fiscalmente capiente). AUU è una certezza, per i primi 21 anni della vita del figlio. Un’altra sua caratteristica è di raggiungere il massimo importo per il 50% delle famiglie meno ricche (quasi 200 euro mensili a figlio nel 2023), e di scendere progressivamente per le famiglie più ricche, fino a raggiungere una cifra quasi simbolica per il 20% delle famiglie più abbienti (55 euro mensili nel 2023). Per il 10% delle famiglie più povere, AUU copre quasi interamente il costo monetario di un figlio, e questa proporzione diminuisce rapidamente al crescere del reddito e della ricchezza. Non si può ancora dire se AUU spingerà verso l’alto la fecondità delle coppie italiane, perché la misura è entrata a regime appena un anno fa. Si può comunque supporre, anche alla luce di studi su misure analoghe in Italia e all’estero, che l’effetto sulla natalità – se ci sarà – sarà concentrato nelle coppie per cui AUU copre una parte sostanziosa del costo di un figlio (in più).
La “rivoluzione” di AUU ha allineato l’Italia ai paesi più virtuosi, come la Germania e il Canada. Le proposte del ministro Giorgetti e del sottosegretario Bitonci, di accostare all’assegno nuove detrazioni o deduzioni, avrebbero un effetto “controrivoluzionario”, perché tornerebbero a subordinare l’erogazione di denaro alla condizione di capienza fiscale, con il paradosso di non erogare nulla ai più poveri, che non pagano tasse, e creando incertezza, perché deduzioni e detrazioni cesserebbero in caso di sopraggiunta incapienza. Se si recuperano risorse per le famiglie, conviene piuttosto incrementare AUU, estendendo l’erogazione massima anche alle coppie più abbienti, come avviene in Germania, incrementando AUU per i figli di ordine superiore al primo, e correggendo l’Isee per questa specifica misura, che ora può penalizzare le famiglie numerose, in quanto proprietarie di case più grandi.
Tuttavia, bisognerebbe intervenire in modo più massiccio sul versante dei servizi, l’altra leva che può spingere le coppie a trovare il coraggio di avere un figlio (in più). Infatti, i paesi europei a maggior fecondità – in primis la Francia, ma anche la Germania – accostano sostanziosi benefici economici a servizi generosi, efficienti e flessibili. Ad esempio, si potrebbe estendere e rendere permanente il bonus nido e baby-sitter – fortunatamente mantenuto anche da questo Governo – favorendo in questo modo anche la nascita di micro-nidi privati e di altri servizi di cura 0-3 accreditati, che hanno il vantaggio di un minor costo per la collettività e di una maggior flessibilità. Per una vasta platea di famiglie (chi lavora nel week end, i turnisti…) il nido tradizionale non è una scelta possibile.
Andrebbero poi incrementati i fondi a favore delle scuole per l’infanzia paritarie, oggi penalizzate, anche se teoricamente facenti parte del sistema pubblico di istruzione. Tanto più che in molte aree del paese – soprattutto in Veneto, TAA e in alcune province lombarde – si tratta per le famiglie di una scelta obbligata perché non vi sono strutture pubbliche alternative. Con la modesta (per lo Stato) spesa annua incrementale di 400 milioni, la retta mensile diventerebbe per tutti uguale a quella delle scuole per l’infanzia comunali e statali. (https://aliautonomie.it/2022/09/09/scuole-per-linfanzia-una-disuguaglianza-nascosta-lanalisi-dellistituto-cattaneo/). La relazione fra Stato e scuole per l’infanzia paritarie potrebbe essere poi molto più stretta: quando in Veneto, qualche anno fa, la Regione finanziò le Sezioni Primavera delle scuole paritarie per i bambini di due anni, nel breve giro di un biennio i posti nido raddoppiarono, con ottimi riscontri in termine di gradimento delle famiglie.
Altri cambiamenti auspicabili dovrebbero riguardare i tempi della scuola, da estendere – in età 3-18 – alle 16. Togliendo il sabato e un anno di scuola, le ore complessive erogate sarebbero le stesse, e i giovani terminerebbero le superiori a 18 anni invece che a 19, come in quasi tutta Europa e negli USA. Certo, la scuola dovrebbe profondamente riorganizzarsi: venire articolata su due cicli (ad esempio di 7 e 5 anni), essere meno basata sui compiti a casa (fonte peraltro di notevoli diseguaglianze fra gli alunni), includere maggiormente attività sportive e artistiche. Scelte ardite, ma non possiamo pensare di dare una scossa a quarant’anni di bassa natalità senza fare altre scelte coerenti, ugualmente rivoluzionarie.
Last but not least, anzi forse al primo posto, i giovani che vogliono andare a vivere in coppia andrebbero favoriti e aiutati. Nell’ultimo decennio, la proporzione di 20-34enni che vivono in coppia è continuata a diminuire, come accade ormai da trent’anni. Le ricerche mostrano che per molti di loro si tratta di costrizione, piuttosto che di scelta: malgrado la propensione a mettersi in coppia sia rimasta la stessa, gli affitti alti, i mutui non concessi, i lavori precari, i bassi salari frenano le giovani coppie dall’iniziare una convivenza, per non parlare di un matrimonio. Non c’è spazio per approfondire questo punto: diciamo solo che anche su questo versante lo Stato potrebbe fare molto, ad esempio dare garanzie per l’erogazione di mutui agevolati, e riprendere a investire sull’edilizia popolare pubblica.
Tre ingredienti necessari per una demografia sostenibile
Immigrazione, lavoro femminile e natalità si sostengono a vicenda: proprio per questo motivo possiamo concludere questa nota con un segnale di speranza. Incentivare il lavoro delle donne fa bene alla fecondità, perché le coppie in cui entrambi i partner lavorano stabilmente hanno maggior probabilità di mettere al mondo il primo e il secondo figlio. Inoltre, anche l’aumento degli immigrati stabilmente residenti spingerebbe verso l’alto le nascite: nel 2022 il 14% dei 393 mila bambini nati in Italia aveva entrambi i genitori stranieri, ma quelli di origine straniera sono stati molto più numerosi, perché ormai molte sono le cittadinanze concesse. Infine, l’incremento del lavoro femminile e delle nascite potrà attrarre nuovi immigrati, a causa dell’aumentata offerta di lavoro domestico. Quindi, può innescarsi un circolo virtuoso, simile a quello che l’Italia ha vissuto nel primo decennio di questo secolo, quando la crescita delle immigrazioni, della fecondità e del lavoro femminile – assieme a una maggior sopravvivenza degli anziani – hanno portato la popolazione a crescere dai 57 milioni del 2000 ai 60 del 2010 (nel 2023 siamo meno di 59 milioni).
C’è un ampio spazio per la buona politica, che deve poi concretizzarsi in politiche specifiche e coerenti. Parlamento e Governo – come han saputo fare per l’assegno unico e universale – lascino da parte propaganda e polemiche, e si muovano all’unisono, partendo dai dati oggettivi e da obiettivi coerenti e condivisi: avere in Italia più immigrati, più donne che lavorano e più bambini è possibile e utile, ed è quindi doveroso.
(Foto di Carmen Laezza su Unsplash)
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