Si sta molto polemizzando sul viaggio in Cina di Macron e soprattutto sulle sue dichiarazioni al rientro. Il tema fondamentale della discussa intervista era la necessità che l’Europa «non segua il ritmo degli Usa o le sovra-reazioni della Cina», per evitare «il grande rischio» di «essere presi in crisi che non sono le nostre».  L’Europa non deve «seguire» gli Usa a occhi chiusi: «non vogliamo entrare in una logica di blocco contro blocco», dobbiamo costruire piuttosto un «terzo polo», che eviti la «vassallizzazione». Dichiarazioni completate dalla successiva precisazione e messa a punto diplomatica (a fronte dello scatenamento delle polemiche di tutti i fronti conservatori, della stampa anglosassone, ma anche di una parte di quella tedesca, per non citare il coro di casa nostra) con la considerazione per cui naturalmente l’Europa non è «equidistante» tra Cina e Stati Uniti.

In sostanza, è facile criticare il presidente francese in questa fase in cui anche in politica interna ha un potere dimezzato dopo le elezioni parlamentari e sta incontrando molte difficoltà con la riforma delle pensioni, che ha scatenato un’imponente ostilità sociale. Il problema è criticarlo per il motivo giusto: non tanto quindi per il suono delle affermazioni in sé, ma potremmo dire per la coerenza del suo percorso. Infatti, è del tutto sostenibile, anzi apprezzabile, l’idea di un’Europa alleata della superpotenza americana che rifiuti di essere una sua semplice appendice strategica e un sostegno acritico a qualunque scelta arrivi da Washington (non rispolveriamo l’inconsistente e vaga accusa di antiamericanismo quando qualcuno usa ricordare questa premessa di ogni alleanza: si è in due a partecipare, ognuno con il proprio punto di vista). Non è una novità: Macron aveva già espresso posizioni di questo tipo in discorsi di un certo rilievo prima delle crisi recenti (pandemia e guerra). Però poi bisogna essere lineari. E la Francia ha mostrato poca linearità, se intende ancora questa sottrazione alla dipendenza oltreatlantica in chiave gollista-nazionale. Accompagnando le dichiarazioni apparentemente europeiste con una linea di politica estera nazionale del tutto scoordinata in parecchi settori geopolitici, a partire da Mediterraneo. Se cioè l’idea che traspare al di sotto della retorica è ancora quella di un’Europa degli Stati che si coordini blandamente, sotto una sostanziale guida politica francese.

Per essere conseguenti, occorrerebbe fare il passo avanti di mettere a disposizione i simboli e i perni del ruolo strategico della Francia (il seggio permanente e il diritto di veto all’Onu, la «Force di frappe») per costruire un progetto europeo solido. Giova ripetere che un tale percorso non può essere realmente efficace se non muove verso una prospettiva di superamento progressivo del modello fondamentalmente intergovernativo delle istituzioni europee, per attingere invece il rafforzamento di un polo interno di significato politico forte, in senso federale. Solo così è immaginabile la costruzione di una politica che vada oltre le esitazioni e le debolezze dell’attuale Unione europea, e costruisca qualche aspetto di una vera e reale «autonomia strategica» dell’Europa, nel nuovo clima internazionale competitivo. Ancora una volta, sottolineiamo che tale autonomia non è solo questione di eserciti, come troppo spesso si equivoca. È piuttosto questione di scelte coerenti su una serie di capitoli forti dell’agenda di governo europeo delle crisi interconnesse che stiamo vivendo: l’energia, l’industria e soprattutto i suoi settori tecnologicamente avanzati, le migrazioni, la gestione delle crisi regionali, il rapporto con i vicini (e naturalmente qui cade il punto della guerra in Ucraina). Non è una cosa impossibile indicare e perseguire obiettivi comuni su tali questioni, rispetto a cui esistono naturalmente convergenze oggettive di interessi tra i paesi europei, ma anche diversità storiche e posizioni pregresse da smussare e avvicinare.

Inoltre, tali scelte dovrebbero accompagnarsi con un discorso che finalmente prenda realisticamente atto del fatto che l’Unione a 27 non è il contenitore coerente a una visione politica di questo tipo. E come nel caso dell’area euro che non coincide con l’Ue intera, ci può essere una diversità di approccio, per cui solo un nucleo forte di alcuni paesi proceda verso una solidarietà politica più profonda, una «unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa», come si è detto sulla carta fin dal momento della firma dei trattati europei del 1957.

Insomma, la verifica dei discorsi sull’autonomia sta su questi due terreni: modello istituzionale di una politica europea e coerenza dei soggetti membri. Naturalmente Macron ha delle attenuanti, nel senso che i suoi interlocutori naturali in questa prospettiva non lo stanno affatto aiutando. L’incerta Germania guidata dalla coalizione «semaforo» alterna timori e prudenze (data anche la sua condizione di dipendenza energetica) a soprassalti di fermezza parolaia fin eccessiva, accompagnati da una scelta di aumentare fortemente gli investimenti nella difesa, di taglio del tutto nazionale e quindi ancora una volta disancorata da un progetto europeo. L’Italia del governo Meloni si accontenta per ora di un blando ma fastidioso euroscetticismo, accompagnato dalla volontà di apparire un pasdaran dell’alleanza atlantica (forse per far dimenticare gli abbracci con Putin di una parte dei suoi alleati interni). I paesi nordici come Svezia e Finlandia hanno fatto anche loro la scelta della Nato e sembrano accontentarsi di questa tutela militare esterna. Altri interlocutori all’orizzonte poco si segnalano per attivismo, con la Spagna socialista molto orientata a tutelare le proprie originali scelte interne. Il centro-est post-comunista è quanto di più lontano da un disegno europeista forte, nella logica sovranista imperante.

C’è da essere pessimisti sul futuro di un’Europa siffatta.

(Foto di Christian Lue su Unsplash)

 

  • Guido Formigoni

    Professore di Storia contemporanea e Prorettore alla Qualità, Università IULM - Milano. Coordinatore della rivista web Appunti di cultura e politica.