Il tema è dato dai casi in cui taluno espone sé stesso a un sacrificio del tutto personale e intrinsecamente nonviolento, qual è il digiuno, per attestare il valore che attribuisce a una determinata istanza civile o etica, affinché questa trovi maggiore sensibilità nelle coscienze altrui e nei pubblici poteri. Si tratta di una forma particolare di espressione del pensiero, degna di rispetto e rientrante nell’ambito garantito dall’art. 21 della Costituzione: lecita, ovviamente, anche ove miri a modifiche legislative e, per sé, non identificabile, pur quando intenda accreditare l’ingiustizia di una data norma, con un’istigazione a disobbedire alle leggi. In simili termini, pertanto, non risulta suscettibile di essere impedita con interventi sul corpo del digiunante.

Nell’ipotesi in cui, tuttavia, la persona coinvolta rifiuti di alimentarsi anche a costo della propria vita emergono considerazioni attinenti alla non frustrazione dei fini stessi perseguiti dal digiunante, come pure considerazioni giuridiche, le quali depongono nel senso che la vita del medesimo debba essere salvata.

Circa il primo aspetto, deve osservarsi che, solo continuando a vivere, colui il quale attui uno sciopero della fame potrà ulteriormente esprimere, non preclusa dalla morte, la sua libertà di manifestazione del pensiero: secondo una capacità d’incidenza rafforzata, anzi, dal sacrificio sopportato. 

È molto alta, del resto, la probabilità che proprio l’aver lasciata intervenire la morte finisca per sancire l’insuccesso dell’intento perseguito dal digiunante: l’oblio rischia di stendersi a breve, in tal caso, sulla persona che si è sacrificata e sui motivi che l’abbiano spinta ad agire in quel senso. A questo proposito, non possiamo non tener conto del fatto che almeno cinque persone sono morte negli ultimi anni in Italia a seguito di uno sciopero della fame attuato in condizioni detentive: senza che quasi nessuno lo sappia, e senza che quelle morti abbiano cambiato alcunché.

Né si può trascurare come risulterebbe ipocrita e contraddittorio per le pubbliche istituzioni liberarsi di una persona scomoda consentendone la morte, salvo giustificare tutto questo come forma di rispetto della dignità di tale medesima persona: tanto più laddove lo sciopero venga attuato in quella condizione detentiva che incide, comunque, su diritti umani fondamentali e sullo stesso vissuto personale del recluso, imponendo a tali istituzioni di salvaguardarne la salute e la vita. Trattandosi anche di scongiurare qualsiasi eventualità che morti evitabili in carcere, per inedia conseguente a stati depressivi, si rendano passibili d’essere presentate come conseguenti a insindacabili scelte personali di digiuno. 

Che poi possa prodursi un effetto traino nell’opinione pubblica, circa gli obiettivi del digiuno, in conseguenza dello sconcerto diffuso che la morte del digiunante abbia generato appare pensabile solo con riguardo a contesti, rari, nei quali le istanze perseguite trovino già un consenso sociale esteso, peraltro in grado, come tale, di rendersi incisivo senza abbisognare di una vittima. Il far conto, inoltre, su un simile effetto finirebbe per minare l’intrinseco statuto nonviolento del digiuno stesso, riconducendolo a dimensioni di strumentalità che ne offuscherebbero l’afflato ideale.

In ogni caso, non potrebbero qualificarsi puramente emotive le ragioni stesse per cui, può ritenersi, la maggior parte delle persone non aderirebbe al mancato salvataggio di un proprio congiunto in sciopero della fame, pur ove di quest’ultimo tali persone condividessero i motivi: posto che esse preferirebbero, semmai, associarsi alla testimonianza di quel congiunto dopo che sia rimasto in vita.      

Sarebbe quindi incongruo ritenere scontato che la migliore forma di solidarietà verso chi attui uno sciopero della fame, e verso i suoi fini, consista nell’affermare che la sua volontà di rifiutare l’alimentazione implichi l’essere lasciato morire quando il pericolo della morte si faccia incombente, reputando, per converso, che quanti non si orientino nel medesimo senso dimostrino una minore premura verso tale persona. Posto che l’intervento salvavita non comporta il far valere interessi antitetici a quelli che abbiano motivato il digiuno, né la coartazione dell’autonomia di espressione del digiunante: la quale, piuttosto, viene in tal modo salvaguardata per il futuro.

Ciò premesso, non potrebbe comunque sostenersi dal punto di vista giuridico la legittimità del non intervenire per salvare la vita di chi stia attuando uno sciopero della fame. In contrario, ci si è talora riferiti alla legge n. 219/2017, riguardante il consenso ai trattamenti sanitari, legge la quale ammette il rifiuto o la rinuncia pure nei confronti di trattamenti salvavita, dalla cui omissione, pertanto, derivi la morte: pur esigendo che si attivi previamente un supporto anche psicologico nei confronti del malato e gli siano garantite le cure palliative.

Simile legge, tuttavia, ha per oggetto esclusivo la «relazione di cura» tra paziente e medico e ammette il rifiuto o la rinuncia solo con riguardo a trattamenti sanitari che siano avvertiti dal malato, date le loro caratteristiche, come per lui intollerabili. Mentre non ammette in alcun modo una rinuncia per altri motivi a interventi salvavita: non a caso l’art. 1, co. 4, della legge n. 219/2017 chiarisce che il suddetto «diritto di rifiutare» da parte del paziente riguarda «qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia».

Ora, da un lato, la patologia consiste in un’alterazione intrinseca della funzionalità dell’organismo, e non in un’alterazione di tale funzionalità dipendente soltanto da fattori contingenti rappresentati dal mancato apporto all’organismo di elementi necessari per il prosieguo dell’iter esistenziale (così che simile funzionalità sarebbe ripristinata attraverso la mera reintroduzione di tale apporto): il digiunante non ha alcuno stato di malattia il quale ne comprometta la capacità di alimentazione.

Dall’altro lato, nel caso dello sciopero della fame manca qualsiasi valutazione del digiunante che lo porti a rifiutare eventuali trattamenti sanitari in forza delle loro caratteristiche specifiche, e in ispecie perché li percepisca comportare un surplus di sofferenza che ritiene, nella sua condizione, non sopportabile: il digiunante, al contrario, desidera ripristinare anche con identici trattamenti, una volta che abbia raggiunto gli obiettivi della sua condotta, buone condizioni di salute. Diversamente dal malato che rinuncia a trattamenti salvavita, egli non persegue in alcun modo il lasciar ormai intervenire la morte.

E quanto s’è detto inficia, a fortiori, la validità di eventuali disposizioni anticipate di trattamento le quali ricomprendano il rifiuto di interventi salvavita fuori dal contesto predetto della legge n. 219/2017, che le contempla.

Neppure si potrà dire che, anche a prescindere dalla legge n. 219/2017, sarebbe precluso ogni intervento sul corpo di una persona non incapace ove consti una sua opposizione. Mai, finora, s’è ritenuto, infatti, che non debba salvarsi chi abbia tentato di togliersi la vita e abbia ribadito, poi, di voler essere lasciato morire, o lo abbia lasciato scritto. In realtà, il rango che assume in rapporto agli altri beni costituzionali il bene vita, la cui salvaguardia costituisce presupposto perché ogni altro diritto fondamentale risulti suscettibile d’essere esercitato, esige che nei casi in cui la tutela di quel bene possa talora soccombere ciò sia previsto in una precisa disposizione avente forza di legge. Ma non esiste alcuna legge, o alcuna norma di buona pratica clinica (cfr. l’art. 1, co. 6, della legge n. 219/2017), la quale autorizzi il lasciar morire chi pratichi uno sciopero della fame (in Germania, per esempio, esiste una disposizione esattamente opposta). Né una disposizione anticipata di trattamento che si opponga all’intervento salvavita potrebbe resistere ai limiti previsti dall’art. 4, co. 5, della legge n. 194/1978.

La chiarezza circa il fatto che lo sciopero della fame non costituisce contesto in cui venga meno l’obbligo di salvaguardare la vita umana esige, peraltro, che un eventuale intervento salvavita si realizzi, con la minima invasività possibile, quando il rischio per la vita di tale persona si renda, oggettivamente, concreto e attuale. Avere riguardo, infatti, al momento in cui tale persona, a seguito del digiuno, risulti, inoltre, non più cosciente – come sembra evincersi anche dal documento approvato sul tema dal Comitato nazionale per la bioetica il 6 marzo scorso, che pure nell’opinione di maggioranza segue un iter argomentativo non molto dissimile dalle riflessioni sin qui svolte – appare piuttosto equivoco: dato che la perdita della coscienza non si realizza in un momento puntiforme e che è difficile ponderare la lucidità di una persona in condizioni di gravissima debolezza fisica; soprattutto, però, attendere quel momento potrebbe far sì che l’intervento avvenga troppo tardi, quando la compromissione delle condizioni fisiche del digiunante non sia più recuperabile.

Simile chiarezza potrebbe contribuire, altresì, a descrivere il contesto proprio in cui il digiuno assuma la sua legittima portata di pressione rispetto a temi di rilievo pubblico, attraverso la trasmissione sofferta di un dato messaggio: con ciò precludendosi utilizzi strumentali del digiuno stesso onde ottenere risultati indebiti facendo leva sul naturale desiderio di scongiurare il senso di colpevolizzazione per un ipotetico decesso da parte del destinatario di una determinata richiesta (gli esempi possono essere molteplici: si pensi al proposito di costringere taluno alla cessione di beni cui non si abbia diritto, e così via). 

Con un’ultima annotazione, riferita al contesto in cui è maturato il dibattito sul tema in oggetto negli ultimi mesi: sarebbe auspicabile che tale dibattito recuperi i contorni di un confronto sereno e aperto ai fini della necessità di riforma degli istituti penalistici – in primis, circa le modalità applicative del regime previsto dall’art. 41-bis ord. penit. – dei quali s’è discusso, necessità più volte ribadita anche da chi scrive. Ovviamente, senza per nulla trascurare la complessità delle forme d’intervento in materia di criminalità organizzata, materia distinta, peraltro, rispetto al caso specifico in cui il suddetto dibattito è andato maturando.

E del resto, in un momento nel quale assistiamo nel mondo al dramma di un ennesimo coinvolgimento degli Stati, e dunque dei popoli, in drammatiche vicende belliche e all’appello solitario ma profetico di papa Francesco alla fratellanza universale, sarebbe importante che tutte le componenti culturali, anche quelle più radicalmente critiche circa gli assetti politici del mondo moderno, sappiano offrire – dismesso qualsiasi cedimento a logiche contraddittorie di violenza – un contributo costruttivo per la costruzione della pace.

 

NingmosbergerCC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

  • Luciano Eusebi

    Professore ordinario di Diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano