«Le navi vicine a voi sono della Marina militare dell’Italia e sono venute per aiutarvi. Se volete, potete imbarcarvi sulle navi italiane come rifugiati politici ed essere trasportati in Italia. Attenzione, le navi vi porteranno in Italia ma non possono portarvi in altre nazioni e non possono rimorchiare le vostre barche. Se non volete imbarcarvi sulle navi italiane potete ricevere subito cibo, acqua e infine assistenza e medici. Dite cosa volete fare e di cosa avete bisogno».

Non è il brano di un film di fantascienza buonista; sono le parole del comandante dell’incrociatore Vittorio Veneto, scandite al megafono da un traduttore e indirizzate ai “disperati” (come oggi si usa dire, con pessima espressione) ammassati su una nave di “boat people” in fuga dal Vietnam, nel 1979. La marina militare ne fece addirittura un video di propaganda ancora oggi facilmente reperibile in rete.

Ed  è in realtà la migliore sintesi –  pur proveniente da una fonte governativa tutt’altro che “immigrazionista”  (per la cronaca, Capo del Governo Andreotti, Ministro della Difesa Ruffini) – del diritto di protezione,  che infatti allora come oggi è governato dalle medesime norme, solo rafforzate dalle direttive dell’Unione Europea: porte aperte a chi chiede protezione, indipendentemente da qualsiasi  “ridistribuzione” (“non possiamo portarvi in altre nazioni”); soccorso a chi non la chiede ma è comunque in difficoltà.

Confrontate con le parole del comandante del Vittorio Veneto, le parole che circolano oggi stridono a tal punto che per confutarle si finisce inevitabilmente a scadere nella ovvietà. Ma ci proviamo lo stesso, appunto ricorrendo all’ovvio.

La prima ovvietà è che il gran parlare di azzeramento della migrazione clandestina, contrapposta al flusso “ordinato e regolare” che si dovrebbe realizzare attraverso la programmazione dei flussi, ignora il tema della protezione internazionale. Se si escludono i limitati casi – ad es. i venezuelani – di coloro che possono entrare in Italia senza visto di ingresso e dunque possono arrivare “regolarmente” e poi  chiedere protezione, in tutti gli altri casi il  richiedente protezione è sempre “clandestino” perché lascia  il suo paese quando può e con i mezzi che trova, senza poter aspettare decreti flussi, permessi o visti di ingresso che non verrebbero mai rilasciati; ma al contempo non è mai “clandestino” perché ha diritto di varcare comunque il confine e di essere accolto, in adempimento di quei doveri di protezione sui quali il mondo intero (o quasi) ha deciso di regolare la convivenza umana quantomeno dal 1951 (data della Convenzione di Ginevra) , ma in realtà da molto prima.

Ciò vuol dire che il richiedente protezione è sempre destinato a viaggi insicuri che mettono a rischio la sua vita stessa? In parte sì ed è bene riconoscerlo; nulla potrà mai eliminare del tutto l’ipotesi che taluno, bisognoso di protezione, lasci “clandestinamente” il proprio paese. Da ciò il dovere (nell’immediato, ma anche in futuro) di soccorso in mare e in terra.

Molto però si può fare per ridurre al minimo questa eventualità, purché si affronti il tema con serietà.  Si sarà notato quanto rapidamente sia tramontata, nel dibattito politico,  una parola  d’ordine illogica e impossibile come “facciamogli fare la domanda di protezione sulle navi”, ora sostituita dal  “Vi veniamo a prendere noi” del Ministro Piantedosi e dal gran parlare di corridoi umanitari. Ovviamente iniziativa stupenda, purché si sappia di che cosa si parla.

Per attuarli ci vogliono in primo luogo ingenti risorse: quelli ad oggi attuati sono interamente a carico delle associazioni che li promuovono (Caritas, Tavola Valdese, Comunità di Sant’Egidio…), anche per quanto riguarda la successiva accoglienza: quando l’attuale Governo ci avrà informati su quanto intende stanziare nell’impresa, avrà titolo per parlarne; prima no.

In secondo luogo occorrono gli accordi con i Paesi di provenienza: non gli accordi per impedire le partenze – che l’Europa e l’Italia hanno  dimostrato di essere disposte a sottoscrivere anche con i soggetti più inqualificabili (si pensi a Libia e Turchia) –  ma quelli per consentire le partenze. Questi ultimi possono quindi riguardare principalmente paesi di transito (come accade oggi per il Libano) e non certo i paesi autori delle violazioni, con i quali simili accordi sono impensabili: quindi, che si parli di “corridoi umanitari” di fronte alle morti di Afgani e Siriani, come accaduto a Cutro, è cosa fuori da ogni logica e da ogni umanità non essendo pensabili, in tempi ragionevoli, accordi con quei regimi.

In terzo luogo occorre prendere atto che, sino a che riguarderanno numeri così esigui (in sette anni, poco più di 5.000 persone) ma certamente anche quando i numeri saranno più alti, i corridoi dovranno necessariamente e drammaticamente sottostare a  criteri di “selezione” di quanti sono ammessi a salire sulla nave e quanti ne restano esclusi: non potendo la domanda di protezione essere esaminata e definitivamente evasa nel paese con il quale si concorda il corridoio (perché non ne sussistono le condizioni e perché comunque nessuno ha mai provato a crearle) finora le associazioni promotrici si sono affidate a criteri informali di selezione dei soggetti più fragili,  indicati dalle realtà locali e ammessi all’ingresso in Italia sul presupposto che, una volta ivi giunti, la loro domanda di protezione verrà accolta. Ebbene la inevitabile “parzialità” del criterio di scelta “in loco”, rende di tutta evidenza che questo strumento non potrà mai sostituire integralmente il soccorso e l’accoglienza di chi “clandestinamente” fugge e “alla luce del sole” ha diritto di fare ingresso e di chiedere protezione.

Per il medesimo motivo, neppure può opporsi – ed è un’altra ovvietà – che “accogliamo solo coloro ai quali possiamo garantire una vita dignitosa”.  Quanto ai richiedenti asilo  il discorso è esattamente opposto: chi chiede di essere protetto ha diritto a vedersi garantite condizioni di vita dignitose e dunque le relative risorse devono essere trovate, sottraendole eventualmente ad altre destinazioni, perché questo ci è imposto da molte fonti superiori e comunque dal diritto dell’Unione (“Gli stati membri provvedono affinché le condizioni materiali di accoglienza assicurino una adeguata qualità di vita che garantisca il sostentamento e dei richiedenti e ne tuteli la salute fisica e mentale” art. 17 direttiva 2013/33).

Ciò vuol dire che dobbiamo farci carico sempre e comunque di chiunque bussa alle nostre porte richiedendo protezione? Certamente no e certamente ha senso porre il tema della ridistribuzione e della famosa riforma del Trattato di Dublino;  ma certo questo tema potrebbe essere posto con maggiore serietà e forza se i numeri non dicessero con granitica certezza che non siamo affatto, come afferma certa propaganda,  il Paese che “rischia di farsi carico di tutta l’Africa”; siamo invece il paese che ha annualmente un terzo delle domande di asilo della Germania e meno della metà di quelle della Francia (Germania 148.200, Francia 103.800, Spagna 62.100, Italia 43.900 – dati 2021) e che ha un tasso di rifugiati ogni 1000 abitanti inferiore alla media europea e inferiore persino a quello della “cattivissima” Malta.

Infine, l’ultima ovvietà: l’immigrazione incontrollata – altro termine molto in uso presso la classe politica di governo – non è mai esistita. Le norme che regolano l’immigrazione in Italia (ingresso per lavoro secondo il “decreto-flussi”, ingressi per ricongiungimento familiare, ingressi per richiesta di protezione) sono sostanzialmente le medesime dal 1998 ad oggi, salvo alcune ragionevoli, ma non decisive,  modifiche imposte dalle direttive europee o introdotte dai governi di centro sinistra (qualche facilitazione in tema di conversione dei permessi, di mantenimento del permesso in caso di perdita del lavoro o simili) che nulla hanno a che vedere con le porte aperte a chiunque arrivi. Infatti l’incremento di immigrati nel corso degli anni è stato molto modesto: da 5.014.000 nel 2015 a 5.030.000 al 2022; mentre, secondo tutte le pur difficili stime, il dato degli stranieri irregolari è sempre rimasto tra i 500.000 e i 600.000: davvero incredibile che, in questo contesto, taluno possa parlare di “immigrazione incontrollata” senza scadere nel ridicolo.

È tempo dunque di tornare all’ovvio che forse, più di tanti argomenti, può scuotere le coscienze; e di tornare alle parole, semplici e nette, del Comandante del Vittorio Veneto: “dite di cosa avete bisogno”.

 

 

Crediti foto: Mstyslav Chernov/UnframeCC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

 

 

  • Alberto Guariso

    Avvocato, in precedenza ha lavorato come funzionario sindacale presso la CISL di Milano.