Non va lasciata cadere l’idea-proposta avanzata sul Corriere da Luigi Ferrarella di immaginare un percorso ispirato alla cosiddetta giustizia riparativa con riguardo alle responsabilità relative alla gestione del covid. Una proposta ripresa sulle stesse colonne dal matematico e affermato scrittore Paolo Giordano che si è molto occupato di covid. A mio avviso, una terza via – certo difficile, innovativa, tutta da elaborare nella sua implementazione – che si discosta dalle due in atto: quella della Commissione di inchiesta parlamentare e quella giudiziaria avviata dalla procura di Bergamo. Da ex parlamentare di lungo corso, nutro una profonda diffidenza verso le Commissioni parlamentari. L’esperienza attesta che esse si rivelano inutili e inconcludenti e/o foriere di sterili, corrosive polemiche, in quanto sistematicamente piegate a interessi di parte politica. Nel caso in oggetto, il copione sarebbe quello di sempre: una parte colpevolizzerebbe gli esponenti del governo di allora, la parte avversa quelli della regione Lombardia. Ma anche l’indagine giudiziaria solleva interrogativi. Essa, per sua natura, deve accertare precisi reati imputabili a soggetti individuali. Non semplicemente fornire materiale informativo circa errori, ritardi, improvvisazione nella gestione politica e sanitaria del covid (come ha fatto intendere il pm di Bergamo). Ferrarella, ferrato in materia, ha spiegato perfettamente come le regole, gli istituti, la strumentazione del diritto penale siano inidonei allo scopo. Salvo specifici, circoscritti casi. Con un risultato già scritto, cioè processi infiniti che non reggono i tre gradi di giudizio, come dimostrano numerosi precedenti concernenti reati a “vittime diffuse”. E, a seguire, con conseguenze e reazioni anch’esse già scritte: lo scoramento e la rabbia delle vittime o dei loro congiunti, un sentimento di denegata giustizia, la colpevolizzazione dei giudici, il discredito verso le istituzioni. Il diritto penale è il ramo del diritto meno mite, che opera su un terreno arduo e insidioso. Esso può irrogare sanzioni che limitano la libertà personale che la Costituzione dichiara “inviolabile” (art. 13). Di più. Al fine di circoscriverne con precisione l’oggetto, la stessa Carta stabilisce che “la responsabilità penale è personale” (art. 27) e una nota sentenza (n. 264/1988) della Consulta recita così: un soggetto “sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate”. Tali riferimenti normativi avallano un sentimento comune secondo il quale sarebbe improprio affidare la immane, sconvolgente tragedia del covid e delle sue vittime ai tribunali (ripeto: con l’eccezione di casi nei quali fosse di qualche evidenza la responsabilità penale intesa nello stretto senso summenzionato). E tuttavia, per converso, neppure si può “archiviare la pratica” senza dare ascolto ai familiari delle vittime e senza una riflessione collettiva che aiuti la comunità a fare tesoro della drammatica lezione che ce ne viene per il futuro.

Perché dunque non esplorare, se possibile, la terza via, mite ma non elusiva, della giustizia riparativa il cui esempio più noto e di portata storica fu il tribunale sudafricano “per la verità e la riconciliazione” dopo l’apartheid? L’Onu la chiama “giustizia di transizione” a valle di conflitti armati e di guerre civili, mirata alla “guarigione sociale”.

Sul tema della giustizia riparativa, disponiamo di vari studi. In particolare vi si sono applicati i giuristi Gabrio Forti e Claudia Mazzuccato della Cattolica. Un aggancio normativo, come osserva Ferrarella, è in via di perfezionamento con la cosiddetta riforma Cartabia e, segnatamente, con il nuovo art. 129 bis del codice di procedura penale, nel quale si legge: “in ogni stato e grado del procedimento l’autorità giudiziaria potrà, anche d’ufficio, disporre l’invio dell’imputato e della vittima del reato a un Centro di giustizia riparativa” teso a un percorso di riconciliazione. Quale il senso della giustizia riparativa? Essa considera il reato quale danno alle persone e “frattura” relazionale dentro una comunità e mira al coinvolgimento della vittima e dell’imputato. Nel segno di un reciproco riconoscimento delle rispettive ragioni. Nella letteratura sul tema si legge che essa “si propone come risposta all’inidoneità del modello tradizionale del diritto penale (retributivo-punitivo) a coniugare riabilitazione e sicurezza sociale”. Non è il caso nostro? Mi risulta che un pool di studiosi europei stia lavorando a un position paper che disegna le basi di una proposta sui “diritti delle vittime del covid nella Ue” ispirata appunto alla giustizia riparativa.

Conosco l’obiezione: al momento quell’istituto si applica solo dentro il processo. Qui si tratterebbe di sperimentarlo in alternativa ad esso e presupporrebbe la disponibilità delle parti ad accedere a una mediazione. Mi chiedo se non sia possibile introdurlo ex novo con apposta legge. E, a proposito di innovazione normativa, mi pongo anche una ulteriore domanda, forse ingenua. Capisco che il magistrato titolare dell’indagine sia designato per competenza territoriale e ho massimo rispetto per il pm di Bergamo che se sta occupando. Ma, anche pensando alle esorbitanti responsabilità di cui egli è caricato, mi chiedo se la materia, per peso ed estensione, non sarebbe da assegnare a qualche sede giudiziaria speciale e più elevata, più idonea a occuparsi di una questione dai tanti, troppi e delicatissimi risvolti. Per analogia, con quando, a fronte di questioni globali, ci si rivolge a Corti internazionali. Qui si tratterebbe di materia almeno nazionale.

(Foto di Önder Örtel su Unsplash)

 

  • Franco Monaco

    Pubblicista, già presidente dell’associazione «Città dell’uomo» e parlamentare della Repubblica; fa parte del gruppo di coordinamento della rivista web Appunti di cultura e politica.